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 Martedi' 29.1.2002   

 La globalizzazione porta in primo piano 
la valenza economica di scelte altruistiche
Etica e impresa, matrimonio d’interesse

29 gennaio 2002

di Angelo Benessia 

La disuguaglianza fra i paesi ricchi e quelli poveri è al centro di un
ampio dibattito. Vi è generale consenso intorno alle potenzialità di
progresso insite nella globalizzazione, ma le opinioni divergono quando si
tratta di indicare la strategia per arginare il sottosviluppo. 

Nella sua conferenza dello scorso 21 gennaio per le «Lezioni della sala
Zuccari» a Palazzo Giustiniani (Tra secondo e terzo millennio. Gli scenari
della globalizzazione) Giovanni Agnelli ha osservato che buona parte dei
ragazzi che oggi hanno tra i 14 e i 26 anni (un miliardo e mezzo) vive nel
Terzo o Quarto Mondo, col rischio che le relative potenzialità vadano
sprecate. 

E questo, come si legge nel capitolo conclusivo denso di ragionate
speranze, mentre la compagine mondiale «ha fatto sua la convinzione che
esiste un destino comune nel conquistare insieme l'affrancamento da ogni
genere di povertà e privazione materiale e immateriale». 

Il presidente della Banca Mondiale James Wolfensohn aveva del resto
dichiarato, qualche tempo addietro, che «La guerra non sarà vinta fino a
quando a quando non affronteremo il problema della povertà». E Pasquale
Pistorio ha ricordato ai lettori di questo giornale il peso immane del
cosiddetto Digital Divide, ossia del divario che separa chi possiede gli
strumenti digitali di accesso alla rete da chi (gran parte dell'umanità,
secondo Rifkin) neppure sa che cosa sia Internet. 

Dal canto suo, in occasione della lezione inaugurale tenuta il 25 ottobre
2001 al Collège de France, Claudio Magris ha osservato che il modello di
sviluppo della civiltà occidentale fa dire, con Svevo, che «la vita è
oscurata dall'ansia del vivere». 

Paul Farmer, medico e antropologo fra i fondatori dell'organizzazione
internazionale Partners in Health e direttore dell'ospedale Bon Sauveur di
Haiti, ha ricordato (Le Monde, 11 Novembre 2001) che malattie come la
tubercolosi e l'Aids sono affrontate dal mondo occidentale in un'ottica
orientata a gestire, più che a combattere alla radice, la povertà e le
disuguaglianze sociali. E' in questo clima culturale che la discussione ha
investito i fini stessi dell'impresa. 

La teoria della «creazione di valore» non sembra esaustiva. Molti, con
Amartya Sen, ritengono che il successo globale di un'impresa sia in larga
misura un bene pubblico, da cui scaturiscono benefici collettivi. E questa
consapevolezza porta con sé evidenti riflessi di natura etica, con lo
spostamento dalla «virtù» aristotelica, intesa come capacità dell'uomo di
essere migliore, all'etica weberiana della responsabilità. 

L'affermazione, nell'impresa, di valori condivisi dal management come dai
dipendenti non è di oggi. Essa, infatti, è alla base dei primi «codici di
condotta» adottati da grandi gruppi multinazionali, come Johnson & Johnson,
il cui famoso Credo risale al 1943, Hewlett-Packard, Merck, General
Electric e molti altri. 

Accanto a questi codici, spesso nati per reagire a scandali finanziari, vi
è una seconda e più recente matrice che trae fondamento non tanto dalla
pura e semplice ricerca dell'integrità quale valore-guida, ma piuttosto
dalla crescente sensibilità ai profili di responsabilità sociale
dell'impresa. 

Nel giugno 2001 Air France ha adottato una Charte sociale et ethique allo
scopo di affermare l'adesione a valori e diritti fondamentali in tema di
salute, sicurezza, dignità del lavoro. La Charte di Air France ha
anticipato di poco la pubblicazione, avvenuta a Bruxelles nel luglio 2001,
del Libro Verde della Commissione CE sulla responsabilità sociale delle
imprese. 

Si tratta di un testo voluto per aprire una discussione (le osservazioni
dovevano pervenire entro la fine del 2001) sul possibile contributo delle
imprese a migliorare la società e l'ambiente, nell'interesse stesso degli
operatori economici: si ipotizza, ad es., che applicare regole avanzate nel
settore della formazione, delle condizioni di lavoro e dei rapporti tra la
direzione e il personale possa migliorare la produttività. 

La virtù, ha scritto Gustavo Zagrebelsky (Come si può essere repubblicani,
in Lezioni per la Repubblica - La festa è tornata in città, a cura di
Maurizio Viroli), è «una nozione che il repubblicanesimo giacobino ha reso
sospetta, per il carattere intollerante che le ha conferito, e che quindi
dobbiamo utilizzare con cautela». L'ammonimento è quanto mai appropriato. 

Basta pensare ai recenti eccessi e alle violenze commessi nel segno della
rivendicazione di una maggior giustizia distributiva, per avvertire come
siano da evitare toni messianici; e però nel contempo come sia importante
riaffermare l'importanza anche politica dell'atteggiamento altruistico,
inteso come (ancora Zagrebelsky) «disponibilità a mettere in comune
qualcosa di noi stessi, capacità, tempo, risorse materiali, per il bene di
tutti: e in primo luogo per il bene di coloro che più hanno bisogno». 

Affiora qui l'insegnamento di Guido Calogero sull'eticità come superamento
del solipsismo, non a caso ricordato con vivido tratto da Carlo Azeglio
Ciampi nelle pagine introduttive delle Lezioni, ove si sottolinea che
«altrettanto importante del principio di libertà è il principio di
giustizia, di giustizia sociale». 

A più di duecento anni dall'aforisma di Adam Smith sul birraio che non per
benevolenza vende la sua birra, ha un senso chiederci se altruismo e
impresa siano termini incompatibili? In realtà proprio la globalizzazione
dimostra che le imprese sono attori formidabili di un processo che
potrebbe, pur sempre nella logica del mercato, rivelare la valenza
economica espansiva dei comportamenti non egoistici. 

È questo il terreno sul quale si misurano le opposte vedute di chi vorrebbe
le imprese impegnate anche nella ricerca di una funzione etica; e di chi,
al contrario (ad es. D. Anderson, Misguised Virtue: False Notions of
Corporate Social Responsibility, Institute of Economic Affairs, London
2001), vorrebbe lasciare allle regole di mercato la funzione
riequilibratrice delle disparità nei livelli di sviluppo. 

È vero che, insegnava Einaudi, il mercato soddisfa domande, non bisogni. Ma
qui non si tratta di ammiccare ai preconcetti ancor oggi alla base di un
certo tipo di rifiuto intellettuale delle regole di mercato. 

La questione è, semmai, non cadere nell'eccesso opposto, al punto da
ignorare che il mercato da solo non è in grado di supplire, per dirla
ancora con Amartya Sen, alla necessità vitale di «beni pubblici», come lo
sono l'ambiente, la salute, l'integrità personale. 

D'altra parte sarebbe opportuno ricordare, ogni volta che discutendo di
Business Ethics si evoca il mercato, citando immancabilmente Smith e
Pareto, che proprio il mercato, come la democrazia, è un sistema in
continua evoluzione. Così che, in luogo di cercare ancoraggio in modelli
classici e astratti, meglio varrebbe sforzarci di contribuire alla positiva
trasformazione del modello che si evolve sotto i nostri occhi. 

Nessuno pensa di confondere i ruoli e di attribuire alle imprese, con il
pretesto dell'etica, un'indebita supplenza in compiti e funzioni che loro
non appartengono. Ma è pur vero che quanto più le imprese avvertiranno
l'importanza della responsabilità sociale, tanto più gli Stati e le
Organizzazioni internazionali saranno efficaci attori primari nella lotta
contro la povertà, la fame, le malattie. 

E quanto più queste piaghe saranno efficacemente combattute, tanto più
difficile sarà, per i profeti dell'odio, trovare adepti pronti a seminare
terrore. 

Avvocato in Torino


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