dalla stampa Martedi' 19.2.2002 Scrivi alla redazione Editoriali e opinioni
Si conclude il dibattito sui codici di comportamento per le aziende e l'economia Etica e affari, una sfida europea 19 febbraio 2002 di Angelo Benessia Vi fu un tempo in cui l'uomo, abitante della città terrena, accettava la sofferenza perché sperava nella città celeste. A questo archetipo appartengono il santo monaco, il cavaliere senza macchia e l'inflessibile imprenditore valdese, evocati da Gustavo Zagrebelsky nel suo intervento, che ha preso spunto dalle riflessioni su etica e impresa ospitate su queste colonne qualche giorno fa. Ma l'eroe del nostro tempo, egli osserva, è oggidì l'uomo d'azione che, sotto il dominio totalizzante dell'economia, cerca il successo non come calvinistico premio divino, ma quale mera soddisfazione di pulsioni egoistiche. Sfido, vien da dire: ammaestrato dalla Raison e dopo le rivoluzioni politiche borghesi, ricordate non a caso da Zagrabelsky, l'uomo cerca ora di realizzarsi per intero nella città terrena, con tanti saluti alla felicità promessa dopo la vita. Venga subito il benessere, senza rinunciare a nulla. E senza spazio per quello spirito di «simpatia» che Gianfranco Dioguardi, nel suo intervento, ha ricordato quale correttivo adottato da Adam Smith, e in generale dagli utilitaristi, pensiamo a Bentham, per mitigare gli eccessi del solo orientamento al bene proprio. Ma la civiltà del benessere, costruita esclusivamente su basi economiche dimentiche di un nomos superiore, è ancora Zagrebelsky a puntare il dito, si scopre senza fondamento, nei panni di un «Prometeo scatenato». È tempo di assegnare un limite e a farlo dev'essere la politica. Quindi ben vengano i codici etici da parte delle imprese, conclude Zagrebelsky, se con questo si dà mostra di avvertire la necessità del limite, purché Prometeo non pretenda di stabilire da sé l'estensione del proprio territorio. Giusto richiamo. Sono importanti, ma si svolgono su un altro piano, le iniziative come il Global Compact promosso da Kofi Annan, di cui ha parlato Maurizio Viroli richiamando l'importanza di avere una élite imprenditoriale motivata da un forte senso di responsabilità sociale. O come l'impegno alla responsabilità sociale recentemente sottoscritto da 36 grandi gruppi multinazionali (Financial Times, 4 febbraio). Intervenga dunque la politica. Ma quale sarà la polis cui affidare il regolamento dei confini della sobrietà contro il consumo e della solidarietà contro l'egoismo: quella dello Stato Nazione mentre il mercato si è fatto globale, o quella più ampia e aggregata, come l'America, o in corso di aggregazione, come è il caso dell'Europa, oppure ancora la polis che coincide con l'universo mondo, nuovo banco di prova dell'Utopia di Thomas More? La risposta è sotto i nostri occhi. L'Europa, in questo momento, è il crogiolo del dibattito sulla Corporate Social Responsibility (Csr). Tony Blair accompagna la spinta verso forme più flessibili dell'organizzazione del lavoro con un forte impegno (ignorato sia dai suoi laudatores sia dai suoi detrattori...) sul fronte della responsabilità sociale dell'impresa e non a caso Kim Howells, ministro del Commercio nel gabinetto Blair, dal marzo 2000 è anche Minister for Corporate Responsibility. Ne è derivato un buon esempio di quel possibile incrocio fra politica, legge ed etica che Franco Bruni, intervenendo nella nostra discussione, ha collocato nell'ambito della matrice obiettivi-strumenti dell'impresa. Infatti il governo britannico ha imposto ai gestori dei fondi pensionistici di dichiarare come essi abbiano tenuto conto, nelle loro decisioni di investimento, dei fattori sociali, ambientali ed etici. I fondi a loro volta hanno preso a chieder conto di questi temi alle imprese nelle quali essi investono, e ciò ha fatto sì che queste, in gran numero, siano state forzate a rendere pubblico il loro «bilancio sociale», cioè a dare crescenti informazioni sopra le loro performance sociali e ambientali. Questa strategia, in un quadro di grande impegno governativo sul piano della Csr, ha finito per usare lo strumento della trasparenza, al centro dell'intervento di Bruni sull'etica «interna» degli intermediari finanziari, al fine di premere sulle imprese multinazionali affinché contribuiscano allo sviluppo «sostenibile». In Olanda, in Danimarca, in Germania, i governi stanno operando nella stessa direzione di appoggio e promozione della Csr: al centro dell'impresa si colloca l'individuo. E i valori individuali, come ha notato ancora Dioguardi, acquistano valenza imprenditoriale e sociale. Nel modello europeo altruismo e impresa, anche Viroli è d'accordo, non sono termini incompatibili. Tutto questo avviene mentre gli Stati Uniti sono scossi dal crack Enron, il quale dimostra come poco possano le leggi e i regolamenti - pur essenziali come ricorda Bruni - quando i vertici aziendali abbandonano la regola dell'integrità, con l'aggravante di averla eletta a propria guida con tanto di codice etico. Abbiamo sempre pensato che, a partire dal Securities Act del 1933, e dal Securities Exchange Act del 1934 (la legge che ha istituito la mitica Sec, Securities Exchange Commission), la legislazione americana fosse all'avanguardia nella protezione del risparmio e nel controllo dei mercati. Ora ci accorgiamo che i dipendenti della Enron hanno visto andare in fumo i loro piani pensionistici, e constatiamo, ce lo conferma il recente intervento di Luigi Spaventa davanti alla commissione Finanze della Camera, che la decantata corporate governance in quel caso non ha funzionato e che la disciplina contabile non ha tenuto il passo con la rapidità e la complessità dello sviluppo delle nuove pratiche e dei nuovi strumenti finanziari. In questo quadro emerge l'Unione Europea come la nuova polis dalla quale ci attendiamo, sperando nel successo di Valéry Giscard d'Estaing e di Giuliano Amato, la capacità di elaborare regole comuni che diano nuovo slancio al Vecchio Continente. Il cammino della Corporate Citizenship, da cui abbiamo principiato a ragionare aprendo la discussione, passa anche e soprattutto dall'Europa e dall'avveramento delle idee lungimiranti degli Altiero Spinelli, degli Ernesto Rossi e dei tanti altri convinti europeisti. A trent'anni e passa dal Défi Américain descritto da Jean Jacques Servan Schreiber, i Paesi dell'Unione si devono preparare, sul piano dello sviluppo e della lotta contro le povertà, a lanciare un arduo, ma indispensabile, Défi Européen. Per il cui successo l'apporto delle imprese, etico nel senso più ampio, sarà decisivo quanto il quadro politico nel quale esse saranno chiamate a operare.