Alla sbarra il sergente George Pogany accusato
di "insubordinazione" in Iraq. Le prime proteste


Il mal di guerra dei marines
primo processo per "codardia"

Dopo una strage di iracheni compiuta dai suoi, il soldato cominciò a
vomitare: "Davanti a quei corpi non ce l'ho fatta"
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI  la Repubblica



WASHINGTON - La voce del comandante Bush intima per l'ennesima volta dal suo
ranch in Texas: "Resistere, combattere vincere" ma chi sono quei "noi" che
non se andranno e dovranno combattere? Non Bush, non Cheney, non Rumsfeld,
non Rice, non Wolfowitz, che dall'Iraq se ne è andato in gran fretta dopo
essere stato sfiorato da un missile, non quei guerrieri da scrivania che
coraggiosamente combatto la loro guerra all'ultimo sangue. Degli altri, dei
soldati americani e non più solo americani che non hanno scelta e che da
nove mesi pagano il conto del "resistere, combattere e vincere", la solita,
vecchia carne da cannone oggi in confezione high tech.

Ritorna l'antica "ballata del soldato", chiamato a pagare il conto di guerre
naturalmente sempre giuste e a mugugnare fedele, fino allo scoppio della
collera, che scorre sotto la crosta del signorsì e dell'addestramento, anche
in una forza impareggiabile e magnifica come questa americana.

In Colorado è cominciato il primo processo di cui si sappia (poco) per
"dereliction of duty", per insubordinazione da codardia, non contro un
soldatino qualsiasi, contro un "berretto verde", il sergente George Pogany.
Era un addetto all'intelligence, e quando il suo plotone sparò a un gruppo
di iracheni sospetti "annidati in una casetta", facendo strage, ebbe una
reazione violenta. "Davanti a quei corpi massacrati dal tiro delle nostre
mitragliatrici pesanti, con le budella di fuori, cominciai a vomitare. Non
ce l'ho fatta, fisicamente". Un codardo, dice il procuratore militare, forse
soltanto un uomo.

In una baracca di Fort Benning, in Georgia, una delle massima basi
dell'Esercito, un cronista della agenzia United Press scopre che centinaia
di riservisti tornati dal fronte con ferite e malanni vari, giacciono
abbandonati in lettucci a castello "da gulag" scrive, senza servizi interni,
in attesa di medici che non si fanno vedere, perché questo governi del
"resistere, combattere e vincere" non vuole certificare il loro stato di
invalidi di guerra e quindi pagare benefici assicurativi e le pensioni.
Scoppia lo scandalo, si apre un'inchiesta parlamentare, i medici arrivano
finalmente. Ma di loro, fino allo "scoop" della Upi, nessuno dei magnifici
condottieri si era dato cura.

Partono, in questo weekend, dall'Arkansas e dal Texas, terre fedelissime,
altri reparti della Guardia Nazionale, la territoriale, per integrare quei
135 mila regolari (ma neppure la cifra complessiva è data con certezza dal
Pentagono). Lacrime e bandierine, ma mogli o mariti protestano quando
scoprono che il loro "tour of duty", il servizio in Iraq sarà di un anno. Un
anno con soltanto la paga del soldato - 16 mila dollari all'anno per un
soldato scelto, 25 mila per un tenente che i datori di lavoro non sono
obbligati a integrare significa, per molte famiglie, miseria. La Casa Bianca
annuncia di avere cominciato a fare pressioni perché le corporations
facciano di più. Resistere, combattere, vincere, ma non pagare. Il
patriottismo e bello, ma business is business.

Non ci sono rimborsi possibili per i 350 (anche questa cifra è manipolata e
generica) tornati dentro una bara, fra i 233 caduti in combattimento e gli
altri morti "per cause diverse", secondo il delicato eufemismo delle
autorità. Piccoli numeri, per una così grande e storica impresa, ma
abbastanza per spingere il Pentagono a vietare le riprese televisive del
ritorno del caduto, nella cassa scaricata dagli scivoli degli aerei, avvolta
dalla bandiera. "Rispetto per le famiglie" dicono.

Rispetto per il Presidente che su questi morti e sui 2.100 soldati feriti e
almeno mille mutilati, preferisce, nei suoi discorsi, non soffermarsi
troppo. "L'Iraq è un luogo molto pericoloso" ripete, come se parlasse di una
brutta curva su una strada di montagna. Si è saputo di venti soldati tornati
in patria per due settimane di "R , riposo e relax", scomparsi e poi
ripescati a fatica.

"Tornare a casa per due settimane - dice al Washington Post un sergente che
ha conosciuto la figlia nata mentre lui pattugliava il "triangolo sunnita" -
è una tortura, quasi quasi meglio restare all'inferno".

Eppure il Pentagono è costretto a farlo e il numero di soldati autorizzati a
rientrare per "R" è stato raddoppiato, da 250 a 480. Sono i casi più seri di
"combat fatigue", di collasso nervoso. Il 30% di chi arriva alla scadenza
del contratto quadriennale col Pentagono, lascia. Se davvero l'economia e
l'occupazione riprendono, ci si chiede "come faranno le Forze Armate ad
arruolare i rimpiazzi", riflette l'ex generale Vallely.

Arriveranno i complementi stranieri, le truppe ausiliarie delle nazioni
satellite per dare il cambio ai ragazzi americani? Forse, ora che l'Onu ha
sciolto dal voto gli avversari della guerra, ma anche i militari stranieri,
tra i 25 mila in Iraq, cominciano a cadere, sette soldati ucraini colpiti e
feriti la scorsa settimana, dopo un militare scandinavo ucciso.

L'Onu, dopo la strage dell'Hotel Bagdad ha ritirato tutto il personale non
iracheno e la Croce rossa, nonostante una telefonata personale di Powell al
presidente della Cri, sta riducendo i ranghi. Persino la Halliburton, la
società tanto cara al cuore del vice presidente Cheney che ne fu il ben
ricompensato capo fino alle elezioni 2000, fa sapere che sta rivedendo la
sua politica di invii di personale in Iraq, per il troppo rischio,
nonostante un contratto appena firmato con il Pentagono per il valore di 2,8
miliardi di dollari.

"Avevamo sottovalutato le condizioni reali dell'Iraq" spiega lo stesso Colin
Powell a Ted Koppel di "Abc Nightline" e non parla in lui soltanto la
"colomba" designata nel gioco della parti washingtoniano. È l'ex soldato, il
reduce ferito, che sa, per averne ancora addosso le cicatrici, quanto sia
facile e vile, per chi non ha mai visto la guerra in faccia, come Bush, come
Rice, come Cheney, come Rumsfeld, come Wolfowitz, invitare i soldati a
"resistere, combattere e vincere" in un bel discorso alla radio, prima di
andare a pescare le carpe nei laghetti calmi di un ranch in Texas.


(2 novembre 2003)

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