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“LE MENTI DEL DOPPIO STATO”. UNA RECENSIONE.

di CLAUDIA CERNIGOI
venerdì 25 settembre 2020

Abbiamo in altre occasioni stigmatizzato come il giornalista Giovanni Fasanella 
sia uso a scrivere testi nei quali, partendo da documentazione dei servizi 
angloamericani che descrivono una marea di attività eversive anticomuniste a 
fronte di una organizzazione difensiva delle sinistre, riesce a trasmettere il 
messaggio che i veri nemici della democrazia che si stava formando in Italia 
non erano i nostalgici del fascio arruolati dagli Stati Uniti per frenare il 
comunismo, ma i comunisti, dai quali era necessario difendersi anche in 
preventivo, cioè pur in assenza di qualsivoglia azione illegale da parte loro. 
Del resto Fasanella ha a lungo collaborato con l’ex presidente della 
Commissione stragi, il diessino Giovanni Pellegrino che nel 1997 aveva 
rilasciato un’intervista al mensile (espressione della cosiddetta destra 
sociale) Area nella quale diceva che «una volta chiarite le foibe si riuscirà a 
capire la storia interna del paese: perché gli uomini della destra radicale e i 
partigiani bianchi si sono uniti in gruppi clandestini anticomunisti».
In quest’ultimo lavoro (“Le menti del doppio stato”, scritto con Mario J. 
Cereghino, edito da Chiarelettere), i limiti e le pecche del modo di fare 
informazione di Fasanella emergono forse ancora più chiaramente che nei testi 
che lo hanno preceduto (fatto salvo forse il suo peggiore prodotto, “Terrore a 
Nordest” scritto con Monica Zornetta, che raccoglie una tale sequela di falsità 
che riteniamo dovrebbe essere tolto dal mercato ai sensi dell’art. 656 del 
Codice Penale, quello che punisce la diffusione di «notizie false, esagerate o 
tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico».
Gli autori esordiscono con questo curioso preambolo: «questo libro (…) non è un 
trattato di storia ma un’inchiesta giornalistica. Con tutti i limiti del genere 
(…) ma anche, si spera, con tutta la libertà».
Una libertà che però non dovrebbe arrivare fino al punto da ignorare le più 
basilari regole di deontologia professionale, come la verifica delle fonti e 
dell’attendibilità delle medesime, come intendiamo spiegare nelle pagine che 
seguono.
In seguito alla collaborazione con il “cacciatore di documenti” Mario 
Cereghino, che ha raccolto, con un lavoro pluriennale e degno di tutto 
rispetto, negli archivi britannici e statunitensi una mole considerevole di 
documentazione, Fasanella ha iniziato un nuovo filone del suo lavoro dopo i 
libri-intervista scritti con Pellegrino, l’ex brigatista Alberto Franceschini, 
il giudice Rosario Priore, per citare solo i più importanti. Dopo “Il golpe 
inglese” del 2011, anche in questo testo vengono presentati documenti tratti 
dagli archivi dei Servizi segreti britannici, dai quali documenti (per lo più 
informative, va detto subito) sono estratte frasi o concetti descrittivi della 
situazione italiana dagli ultimi mesi di guerra in poi. Avevamo già visto 
Cereghino fare lo stesso tipo di lavoro assieme al purtroppo prematuramente 
scomparso ricercatore siciliano Giuseppe Casarrubea, il quale però aveva uno 
stile di lavoro diverso rispetto a quello di Fasanella, Casarrubea non si 
limitava a stralciare frasi dall’uno o dall’altro rapporto pubblicandole 
acriticamente, ma cercava di dare ai contenuti delle informative una 
contestualizzazione analitica ed un inquadramento storico basato anche su altre 
fonti.
Nel “Le menti del doppio stato” questo lavoro analitico manca, ma non solo: gli 
autori sembrano accogliere senza riserve il contenuto delle varie “informative” 
prese in considerazione. Va ricordato (lo abbiamo più volte ribadito) che una 
“informativa” è nulla più di una relazione che funzionari dei Servizi inviano 
ai superiori su quanto comunicato da una fonte, generalmente anonima o con un 
nome in codice (nei documenti citati nel libro non si trova quasi mai il nome – 
neppure quello in codice – dell’informatore), che a sua volta riferisce di 
quanto è venuto a conoscere. Tali informazioni, se non vengono suffragate da 
altra documentazione valida non possono essere considerate documenti 
definitivi, ancorché “ufficiali” (termine questo molto caro a chi pensa di fare 
ricostruzione storica in tale modo, anche se non intende scrivere un “trattato 
di storia” ma solo una “inchiesta giornalistica”).. Ed il grosso difetto di 
questo libro è proprio che quanto appare nei documenti citati viene preso per 
verità rilevata pur in assenza della ben che minima opera di ricerca di 
conferma o smentita di quanto riportato..
Le “bufale” contenute in queste trecento pagine sono tante e tali che non 
possiamo, per motivi di spazio approfondire la smentita di tutte. Iniziamo da 
un capitolo centrale, quello che riguarda vicende delle nostre terre, che sono 
quelle che meglio conosciamo e che si intitola “Lo sconfinamento 
francojugoslavo e la scommessa anglotitina sul caos”.
Tralasciando la seconda parte del titolo, che ci è francamente oscura, diciamo 
innanzitutto che, se la lingua italiana non è cambiata da quando noi abbiamo 
frequentato le scuole elementari a quando è stato scritto questo libro, 
sconfinamento francojugoslavo significa che francesi e jugoslavi hanno 
sconfinato assieme da qualche parte. Leggendo il capitolo però si vede che gli 
autori parlano di due “sconfinamenti” diversi, francesi ad ovest e jugoslavi ad 
est. In realtà parlare di sconfinamento nel caso in cui un esercito 
belligerante occupa militarmente uno stato nel corso di una guerra e nel 
rispetto degli accordi alleati è un po’ scorretto: gli statunitensi sono 
“sconfinati” in Sicilia nell’estate del 1943? Lo sbarco in Normandia è stato 
uno “sconfinamento” britannico in Francia? Noi diremmo di no. Inoltre, per 
quanto riguarda l’est, di quale confine si parla? Del confine di Rapallo? Del 
confine esteso alla “provincia di Lubiana” dopo l’aggressione nazifascista del 
1941? In ogni caso sarebbe una imprecisione, perché il confine italiano 
all’epoca era arretrato al Veneto, dato che dopo l’8 settembre 1943 il 
territorio già italiano del Friuli, la Venezia Giulia, l’Istria, Fiume e 
l’occupata “provincia di Lubiana” era stato praticamente annesso dal Reich con 
la denominazione di Adriatisches Küstenland e confinava ad est con la Croazia 
occupata, che faceva però ancora parte della Jugoslavia. Di conseguenza il 
territorio che viene presentato come oggetto di sconfinamento jugoslavo non 
faceva più parte dell’Italia (neppure della Repubblica di Salò): per quanto 
strano possa sembrare, l’Esercito jugoslavo aveva di fatto occupato un pezzo di 
Germania.
Leggiamo l’incipit del capitolo: a Trieste «sventolava minaccioso il vessillo 
blu, bianco e rosso con la stella a cinque punte al centro», e poi «i 
partigiani comunisti jugoslavi (…) imposero la loro legge. Brutale, 
sanguinaria, vendicativa»; ed ancora (poco più sotto) «i nuovi padroni non 
riconobbero il CLN come legittimo rappresentante della comunità antifascista e 
organo del governo provvisorio. Imposero il coprifuoco, il passaggio all’ora 
legale (…) consentirono al loro famigerato Servizio segreto, l’OZNA, di 
imperversare ovunque con terribile efficacia: omicidi, sequestri di persona, 
esecuzioni sommarie e migliaia di cadaveri gettati nelle foibe della Venezia 
Giulia, dell’Istria, della Carnia e della Dalmazia»; infine «comportamenti così 
brutali, accompagnati da processi di slavizzazione forzata, resero ancora più 
evidenti le intenzioni di Tito di annettersi un’area vastissima sino al fiume 
Tagliamento ed anche oltre».
A questo punto non possiamo fare a meno di osservare alcuni minuti di silenzio 
per la morte violenta della cultura e della conoscenza storica, barbaramente 
assassinate in queste poche righe che non ci saremmo stupiti di leggere nel 
Candido degli anni ’50, ma che scritte da un giornalista formatosi all’Unità 
danno davvero da pensare (e non bene).
Chissà perché, ci domandiamo, i vessilli degli altri sono “minacciosi”, così 
come sono “famigerati” i servizi segreti altrui (mai una volta che nel libro si 
legga della “famigerata” CIA, o del “minaccioso” vessillo col tricolore 
italiano ed il simbolo dei Savoia, che pure hanno commesso molti più crimini, 
in pace ed in guerra, che non l’OZNA e la Jugoslavia di Tito). Ma vediamo di 
dirimere un paio di cose.
Gli Jugoslavi non riconobbero il CLN come legittimo rappresentante degli 
antifascisti perché il CLN era uscito dal CLNAI in quanto non aveva voluto 
conformarsi alle direttive emanate (conformi a quelle del legittimo governo 
italiano) che prevedevano la collaborazione con la resistenza jugoslava, ed il 
suo presidente, don Marzari, aveva addirittura impedito al Partito Comunista 
(che invece col CLNAI aveva mantenuto i rapporti) di fare parte del CLN 
giuliano. Il coprifuoco c’era già da prima (quando gli Jugoslavi arrivarono a 
Trieste era in corso una guerra mondiale, anche se ogni tanto sembra che gli 
autori di questo libro se ne dimentichino) e fu confermato anche nelle zone 
liberate dagli angloamericani (a Trieste rimase in vigore fino a novembre 1945, 
ben dopo che gli Jugoslavi avevano lasciato la città all’amministrazione 
angloamericana). Non vi fu un passaggio all’ora legale, ma venne ripristinata 
l’ora solare (il 3 aprile precedente l’amministrazione nazista della città 
aveva proclamato “l’ora estiva”, con lo spostamento delle lancette avanti di 
un’ora): considerando che Trieste ha lo stesso fuso orario di Belgrado, i 
“titini” non avevano alcun bisogno di inventarsi un’ora legale per uniformare 
l’orario delle due città.
Gli autori non considerano inoltre che gli Jugoslavi erano “alleati”, sullo 
stesso piano di Gran Bretagna, URSS e USA, come tali avevano il diritto ed il 
dovere di insediare un proprio governo provvisorio ed i CVL locali dovevano 
consegnare loro le armi, esattamente come negli altri territori dove erano 
arrivati gli altri alleati.
Dell’asserito “imperversare” dell’OZNA abbiamo già detto più volte, qui 
ribadiamo soltanto che fu grazie al controllo dell’OZNA che a Trieste e a 
Gorizia non si ebbero quelle giustizie sommarie come nel resto del Nord Italia, 
perché chi veniva arrestato dalle formazioni regolari non fu liquidato 
sbrigativamente, e le vendette personali furono molto limitate. Aggiungiamo che 
nelle foibe non finirono “migliaia di cadaveri” ed in Carnia (dove gli 
Jugoslavi non arrivarono, peraltro) non vi sono “foibe”, come pure non ve ne 
sono in Dalmazia (del resto se in bibliografia sul tema viene indicato il libro 
di Gianni Oliva, si comprende come gli autori non siano in grado di scrivere 
coerentemente in merito). Ed infine, se per “slavizzazione forzata” si 
intendono il ripristino dei cognomi sloveni e croati italianizzati, questi sì 
forzatamente, nei venti anni precedenti e la riapertura di scuole di 
madrelingua per i bambini e ragazzi non italiani, evidentemente chi ha scritto 
un tanto ha delle gravi carenze di fondo nella propria preparazione storica. E 
non vale premettere che si intende scrivere solo un’inchiesta giornalistica, 
perché scrivere cose sbagliate solo perché non ci si è presi la briga di 
studiare almeno i “fondamentali”, non è accettabile.
Ed infine, per quanto riguarda le “intenzioni” di Tito di annettersi «un’area 
vastissima sino al fiume Tagliamento e oltre», viene da chiedersi: ma che 
informative hanno letto gli autori, quelle dei servizi della Decima Mas? 
Ebbene, probabilmente sì, perché più avanti viene citato l’agente britannico 
Piave, al secolo Cino Boccazzi, che cercò un collegamento tra la Decima Mas di 
Borghese e le brigate Osoppo, le cui informative (che non vengono citate in 
questo libro ma sono di pubblico dominio) sono zeppe di menzogne come queste, 
prive di alcun fondamento di verità, il cui unico scopo è di gettare discredito 
sul movimento di liberazione jugoslavo, rendendolo inviso agli alleati 
britannici. Le informative di agenti italiani al servizio dei britannici (come 
gli agenti inquadrati nella Rete Nemo, alla quale abbiamo dedicato uno studio 
specifico scaricabile qui: 
http://www.diecifebbraio.info/2013/06/alla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2/
 
<https://l.facebook.com/l.php?u=http%3A%2F%2Fwww.diecifebbraio.info%2F2013%2F06%2Falla-ricerca-di-nemo-una-spy-story-non-solo-italiana-2%2F%3Ffbclid%3DIwAR1zrSiVL1A5YoENAj4sA0RT8nvr2sdrhEWElNN19_6W8n69oYyQM3egzP8&h=AT2F7baF2JLRmmW_dX8zJ4sAIs47eiGy8Jxomhw8MkkGh_sNXrj4CTHnqrPa0FCBWygZfwWNqXlXrhxjsh8OwbFN4g099l9jNaPfo27z9ow1GggZ_znW-qv3YJDdb71ArbJlpWH_Ubtno8lftOtUpc0e>)
 sono piene di notizie false e calunniose sulla Resistenza comunista ed 
internazionalista, e spesso tali informazioni appaiono chiaramente 
inattendibili per chi conosce i fatti come realmente si svolsero: ed è questo 
il motivo per cui non si può accettare come verità inoppugnabili ciò che appare 
nelle informative, che richiedono, appunto, una verifica alla luce degli altri 
elementi storici, noti o meno noti.
Troviamo altre letture errate di fatti storici, ad esempio quando si parla 
dell’organizzazione partigiana Otto di Genova, che non fu, come sostengono gli 
autori, organizzata come «specchietto per le allodole» dall’agente 
triplogiochista Luca Ostèria, né fu il nucleo da cui nacque la Franchi di 
Edgardo Sogno; mentre il Terzo Fronte poi citato non fu neppure una 
organizzazione, ma una mera invenzione dello stesso Ostèria, ed i Tigrotti 
descritti come il suo braccio armato non esistevano, erano anch’essi 
un’invenzione creata per confondere e depistare i servizi inglesi. Gli autori 
dicono di essersi basati per queste descrizioni sui documenti dei servizi 
britannici, e questa è la plateale dimostrazione di come sia necessario leggere 
anche qualcosa d’altro oltre alle “informative”, perché la storia della Otto 
organizzata dal medico comunista Ottorino Balduzzi, è bene ricostruita da 
Franco Fucci nel suo “Spie per la libertà”, e dallo stesso Sogno; così come non 
corrisponde al vero che Sogno ed Ostèria fecero evadere «diversi prigionieri 
detenuti dai tedeschi», tantomeno il dirigente della Resistenza Ferruccio 
Parri; Sogno tentò un colpo di mano per liberarlo ma fallì e rimase egli stesso 
nelle mani dei nazisti. Per amore di aneddotica citiamo quanto lo stesso 
Ostèria dichiarò a Fucci (e si trova nel libro citato sopra): «Sogno (…) era un 
mitomane al quale, quando ebbe la bella pensata di tentare la liberazione di 
Parri (…) bisognava tirare giù i calzoni e dare una bella sculacciata».
Nell’insieme, per quanto riguarda il periodo della Resistenza, nel libro viene 
fatto un grosso minestrone in cui si parla delle missioni alleate che cercavano 
contatti con la Decima e degli agenti del Reich che cercavano contatti con gli 
angloamericani, tutte vicende che andrebbero contestualizzate nell’ambito 
dell’operazione Sunrise per la resa separata, della quale però non viene fatto 
il minimo cenno: probabilmente perché nelle informative non se ne parla. Sembra 
in effetti che i due autori non abbiano inteso andare al di là di quanto 
scritto nella documentazione dei servizi, nonostante sulle vicende controverse 
della guerra di liberazione in Italia e del ruolo dei vari servizi segreti che 
vi operarono, vi sia una letteratura piuttosto corposa, all’interno della quale 
consiglieremmo agli autori di questo libro di leggere almeno “L’altra 
resistenza” di Peter Tompkins, che fu agente dell’OSS nel nostro Paese e 
descrisse in modo molto lucido e con un’ammirevole onestà intellettuale la 
situazione del tempo.
Prima di approfondire altri argomenti, facciamo qualche breve appunto: il 
“conte rosso” Loredan si chiamava Pietro e non Jacopo; a pilotare l’aereo che 
portò in Spagna il generale Mario Roatta, sottraendolo alla giustizia italiana, 
fu l’agente del sevizio segreto detto l’Anello Adalberto Titta (ciò risulta da 
indagini giudiziarie basate su una serie di documenti e testimonianze sul ruolo 
di quel servizio rimasto segreto – nel senso di totalmente sconosciuto – fino 
alla fine degli anni ’90) e non il massone esoterico Giuseppe Cambareri; 
leggere che il comandante dei Gamma della Decima Mas, Eugenio Wolk, era 
considerato “filorusso a causa delle sue origini ucraine”, fa cadere le 
braccia, dato che il collaborazionismo ucraino con il nazismo era animato non 
solo da motivazioni ideologiche, anticomuniste, ma anche per il nazionalismo 
ucraino che vedeva nei russi degli invasori; sorvoliamo infine (perché 
richiederebbero uno studio apposito) sulle diffamazioni contro Cino Moscatelli, 
accusato di avere lavorato per organizzare, assieme ad altri dirigenti del PCI 
come Pietro Secchia, un’insurrezione armata nel dopoguerra, il Moscatelli che 
viene ad un certo punto liquidato sbrigativamente come l’«irrequieto sindaco di 
Novara» che sarebbe stato «influenzato dalla sua amante Maria» con la quale 
aveva trascorso l’infanzia nella Venezia Giulia (detta così sembra che i due 
sarebbero stati amanti fin dall’infanzia, ma probabilmente il richiamo alla 
Venezia Giulia era necessario per creare una suggestione di collegamento con 
gli “slavocomunisti”).
Del gossip viene fatto anche sulla figura del dirigente comunista Vittorio 
Vidali, sul quale si fantastica che avrebbe cercato di eliminare il segretario 
del suo Partito, Palmiro Togliatti, in un modo talmente subdolo da sfiorare il 
ridicolo: aveva omesso di provvedere a coprire il palco da cui Togliatti doveva 
assistere alla manifestazione del Primo maggio 1955 a Trieste, ed il leader 
comunista, già cagionevole per i postumi dell’attentato fascista subìto nel 
1948 e l’incidente stradale (ipotizzato come altro attentato in questo libro) 
del 1950, al momento di parlare si era sentito male, a causa di un colpo di 
sole degenerato in congestione venosa. Non volendo fare torto all’intelligenza 
di un uomo come Vidali, oltre a non vedere alcun motivo per cui avrebbe dovuto 
eliminare il suo segretario nazionale, pensiamo che se avesse veramente voluto 
eliminare qualcuno avrebbe scelto un metodo più sicuro. E, non paghi di avere 
gettato questo sospetto sulla figura di Vidali, gli autori insistono spiegando 
che su lui «pesava il sospetto» di avere organizzato l’attentato a Trotsky 
(sospetto smentito in più occasioni, peraltro) e di «avere persino architettato 
l’uccisione della sua giovane compagna di vita» Tina Modotti. Al di là del 
fatto che non è corretto gettare “sospetti” di questo tipo qua e là senza 
approfondire la questione, senza dire che le prove sono inesistenti, vorremmo 
evidenziare il linguaggio usato per definire Tina Modotti: “giovane compagna”. 
Termini che creano la suggestione che si trattasse di una ragazza inesperta 
molto più giovane dell’uomo con cui conviveva da anni, mentre la realtà è ben 
diversa: quando morì (per infarto, detto per inciso) Tina Modotti aveva 44 
anni, due più di Vidali, ed inoltre era una militante comunista di lunga data 
che dopo essere stata espulsa dal Messico aveva lavorato come agente sovietica 
in Germania, in Spagna durante la guerra civile ed infine a Mosca.
Proseguiamo con altre suggestioni contenute in questo libro. Sulla questione 
dell’attentato di via Rasella e della successiva rappresaglia delle Fosse 
Ardeatine, leggiamo che «si è insinuato che (l’attentato di via Rasella, 
n.d.r.) fosse stato organizzato dal PCI clandestino al solo scopo di 
sbarazzarsi della concorrenza alla sua sinistra», in quanto furono fucilati 
tutti i dirigenti, fatti prigionieri tempo prima, dell’organizzazione Bandiera 
Rossa che aveva posizioni più radicali rispetto al PCI. Al di là dell’infamia 
di tale sospetto, non suffragato da alcuna prova, resta comunque il dubbio di 
come gli attentatori avrebbero potuto prevedere quali prigionieri i nazisti 
avrebbero prelevato dalle carceri per poi fucilarli. E se il vuoto di Bandiera 
Rossa sarebbe poi stato riempito, con un’opera di infiltrazione, da uomini agli 
ordini dell’esoterista Giuseppe Cambareri e dell’ambiguo generale Roberto 
Bencivenga (col quale il PCI era in forte polemica per le sue posizioni 
attendiste nei confronti dei fascisti), quale guadagno ne avrebbe avuto il 
Partito comunista?
Passando al dopoguerra, leggiamo che «a partire dal maggio 1945 il Triveneto fu 
investito da un’impressionante ondata di violenza». A parte che ciò non fu, 
quale situazione si era vissuta invece, secondo gli autori, fino a quel 
momento? Una situazione idilliaca di pace? Non era in corso una guerra 
mondiale? Tre quarti del Triveneto (definizione assurda, peraltro) erano stati 
annessi al Reich, c’erano stati bombardamenti, rastrellamenti, deportazioni, 
arresti e torture, fucilazioni, ma secondo gli autori sembrerebbe che prima 
della Liberazione fosse tutto tranquillo (detto per inciso, questo è un vecchio 
cavallo di battaglia dei fascisti nostalgici del vecchio regime, sostenere che 
fino all’arrivo dei partigiani non c’era alcun problema, nonostante guerra e 
nazifascismo).
L’unico esempio che viene citato è quello dell’eccidio di Schio: il 6 luglio 
1945 54 prigionieri fascisti furono eliminati sbrigativamente da alcuni 
partigiani (tra i quali anche alcuni infiltrati), sull’identità dei quali poi 
si sono sbizzarriti i redattori delle informative, come quella in cui si legge 
che una «fonte assolutamente degna di fede» (peraltro non identificata) avrebbe 
detto che l’assalto era stato programmato da «emissari croati dell’Ozna». Cosa 
ci facessero a Schio, in provincia di Vicenza (un po’ fuori sede?) emissari 
croati dell’OZNA nel luglio 1945 non viene detto (pretendiamo troppo) ma forse 
una spiegazione ci può venire da questa breve rassegna stampa.
Il titolo apparso il 6/11/45 sul quotidiano Italia Nuova: «cinque dei 
massacratori di Schio si sono rifugiati nell’OZNA», diventa in dicembre, sul 
Secolo XIX «l’assalto compiuto a Schio fu dovuto all’azione di emissari croati 
dell’OZNA». In pratica, i partigiani veneti accusati per l’eccidio di Schio e 
rifugiati in Jugoslavia, diventano “emissari croati dell’OZNA”.. Notevole salto 
logico, che avrebbe dovuto essere evidenziato in una lettura critica dei fatti, 
che naturalmente non è stata fatta.
Sarebbe troppo lungo analizzare tutte le informative citate che segnalano in 
modo allarmistico una presunta attività eversiva comunista dopo la fine della 
guerra: la presenza di «nuovi GAP» nel Nord Italia; una «quinta colonna 
partigiana del PCI» che sarebbe stata «pronta a scatenare la rivoluzione in 
tutto il Nord, il primo passo verso l’unione tra una repubblica popolare 
nell’Italia settentrionale e la Jugoslavia comunista»; addirittura «l’OZNA e le 
sue troike seminavano morte e terrore in mezza Italia». Fa riflettere che chi 
ha preso atto di queste informative non sia stato colto da nessun dubbio sulla 
loro attendibilità, considerando che, anche se un’attività del genere (pur in 
assenza di conferme reali) vi fosse stata, alla fine non è accaduto nulla, 
nessuna insurrezione, nessuna strategia terroristica. Già ci sembra difficile 
credere che l’OZNA potesse seminare terrore in mezza Italia, ma se un tanto 
fosse accaduto, qualcuno se ne sarebbe pure accorto, no? Le cronache dei 
giornali ne avrebbero parlato, gli storiografi lo avrebbero rilevato, ma non 
risulta che nel periodo vi siano stati eventi terroristici, provocati da 
“slavocomunisti” o semplicemente comunisti. Inoltre, nonostante gli autori 
pubblichino documentazione da cui risultano chiare le manovre di infiltrazione 
(fasciste o comunque anticomuniste) nella Resistenza prima e nelle 
organizzazioni comuniste poi, azioni provocatorie di per sé, ma finalizzate 
anche al compimento di atti che suscitassero discredito sui comunisti, alla 
fine tutto ciò viene liquidato in «commistioni tra rossi e neri», come se i 
“rossi” fossero stati consapevoli e concordi nel farsi infiltrare da agenti 
provocatori.
In sintesi, in questo libro vengono denunciate una quantità di intenzioni o 
possibilità eversive dei comunisti e degli jugoslavi in Italia, progetti che 
però non ebbero alcuna concretizzazione, mentre dalle stesse pagine emerge 
invece la concreta attività terroristica antidemocratica di fascisti e 
monarchici, pagati dagli industriali e sorretti dallo “stato parallelo” in cui 
operavano i servizi italiani e soprattutto l’Arma dei Carabinieri che avrebbe 
fornito supporti logistici ai nostalgici del vecchio regime, gruppi eversivi 
che si opponevano alla nuova Italia che stava sorgendo dopo la Resistenza e la 
sconfitta del nazifascismo. Attività queste messe in luce dal puntiglioso 
lavoro di ricerca condotto già nei primi anni 2000 da Casarrubea, anche in 
collaborazione con lo storico Nicola Tranfaglia, del quale lavoro l’allora 
coautore Cereghino ora collaboratore di Fasanella, sembra non avere conservato 
alcuna memoria, se firma un libro nel quale vengono capovolte e mistificate le 
risultanze storiche dei suoi precedenti lavori.
Abbiamo qui evidenziato, e smentito, solo una minima parte delle bufale 
contenute in questo libro, e la mole di questa (peraltro non del tutto 
completa) smentita ci può dare la misura del danno che possono fare 
pubblicazioni considerate “divulgative” come questa, indirizzata al grande 
pubblico, e che viene presentata nell’ambito del festival del giornalismo di 
Ronchi “LeAli delle notizie” come un “libro leale”. I lettori non 
approfondiranno certo gli argomenti citati nel libro, non si premureranno di 
andare a verificare se quanto scritto ha fondamenti di verità o no (del resto, 
perché dovrebbero? è dovere di chi scrive presentare un prodotto coerente e 
veritiero, per non trarre in inganno il lettore con false informazioni); ed in 
questo modo la falsificazione della storia, il cui scopo è sostanzialmente 
quello di creare una convinzione politica anticomunista, continuerà a 
progredire.
Ed è infine piuttosto grave il fatto che la maggior parte delle informazioni 
trasmesse siano fornite a livello di “suggestione”, buttate là con due battute, 
tanto per instillare un dubbio: e si sa bene che per smentire una falsa accusa 
di due parole, la difesa deve avvalersi di pagine di risposte documentate, non 
può liquidare il tutto dicendo semplicemente che si tratta di menzogne, perché 
per la menzogna non è richiesto l’onere della prova, mentre per ripristinare la 
verità sì.

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