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strategie per la comunicazione indipendente
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Car*,
la recensione di Benedetto Vecchi al libro, appena uscito in italiano, di
Geert Lovink, DARK FIBER, ed. Luca Sossella, introduzione di Franco Berardi,
pp. 286, 18 euro:

Viaggio ai confini del cyberspazio
Una lunga ricognizione della frontiera elettronica e un'appassionata
rassegna degli stili e forme di vita che a colpi di tastiera e mouse hanno
trasformato Internet. Ma anche un'analisi dei meccanismi che hanno regolato
l'ascesa e la crisi della new economy, dove il circolo virtuoso tra finanza,
stock option e innovazione non ha retto i colpi e i conflitti della
globalizzazione. «Dark Fiber», la raccolta di saggi di Geert Lovink, uno dei
protagonisti della cibercultura
BENEDETTO VECCHI
E'uno dei migliori libri su Internet uscito nell'ultimo anno. E' il
condivisibile giudizio espresso da Franco Berardi Bifo che introduce Dark
Fiber, il volume di Geert Lovink da poco pubblicato dal piccolo editore Luca
Sossella (pp. 286, ? 18). Quello di Lovink è infatti un libro che riesce
felicemente ad unire la ricostruzione storica della vita nel cyberspazio
nell'ultimo decennio alla definizione dei possibili scenari futuri del web,
passando in rassegna gli stili di vita, le culture critiche che si esprimono
nella rete. Inoltre, a rendere avvincente la lettura di Dark Fiber è il
ritmo sincopato che lo contraddistingue dovuto all'«immediatezza» dei testi
che compaiono spesso nei gruppi di discussione presenti su Internet, dove la
scrittura «mordi e fuggi» è sostenuta da continui rinvii alla cultura «alta»
novecentesca. A mo' di premessa va subito detto che l'autore è uno dei
fondatori della mailing list nettime dopo una intensa educazione
sentimentale nei movimenti alternativi e squatter degli algidi anni Ottanta
in Olanda. Anni di no future e di radicale diffidenza, almeno nei gruppi di
base nordeuropei e non solo, verso la tecnologia, considerata, di volta in
volta, strumento nelle mani del capitale per stroncare ogni forma di
dissenso o incarnazione di uno sviluppo industriale nemico della natura. Di
quella breve, ma densa stagione politica ed esistenziale, Gerrt Lovink ha
mantenuto lo sguardo lucido e l'attitudine alla critica.

Conseguita una laurea in scienze delle comunicazioni, Lovink è infatti
arrivato infatti su Internet imbevuto della dialettica negativa di Theodor
Adorno, della sociologia della comunicazione di Marshall McLuhan e della
corrosiva critica alla società dello spettacolo di Guy Debord, forte però
della convinzione che le tecnologie della comunicazione potessero diventare
da strumento di dominio a tecnologie della liberazione. Faccio parte di
quella generazione, scrive a un certo punto Lovink, che era troppo giovane
nel Sessantotto e troppo cresciuta per farsi abbindolare dalle sirene della
nuova frontiera elettronica: per sfruttare al meglio le potenzialità della
comunicazione on line bisognava fare tesoro del pensiero critico acquisito,
sapendo però che gran parte delle analisi della scuola di Francoforte, di
Marshall McLuhan e di Debord erano difficilmente applicabili a Internet,
dove le tecnologie digitali, recitava la vulgata dominante, non consentivano
solo di comunicare, ma anche di progettare e costruire realtà parallele a
quelle esistenti fuori dallo schermo. Da qui alla definizione di un progetto
corale di net-criticism il passo è stato breve. Anzi, si può tranquillamente
affermare che tutta la produzione teorica di Lovink è parte di questo
progetto, che ha visto impegnati centinaia, se non migliaia di studiosi,
programmatori di computer, semplici navigatori e militanti politici.

Questa parte di Dark fiber è davvero notevole, perché mette in evidenza la
complementarietà tra la vita dentro lo schermo e quella fuori. Così,
scorrono all'indietro le aspre discussioni degli anni Novanta sul virtuale e
il reale, sul ruolo delle tecnologie digitali nel trasformare i media, sulla
comunicazione on line, sui progetti governativi di censurarla, sulla
cosiddetta democrazia elettronica e via digitando. Pregnanti sono infatti i
saggi dedicati all'uso di Internet per informare da parte dei dissidenti
serbi durante le guerre nei Balcani, stretti tra il nazionalismo etnico di
Milosevic e le bombe umanitarie della Nato. L'esperienza dei mediattivisti
indipendenti serbi serve però come elemento propedeutico al tema della
net-war, cioè alle guerre che si combattono su Internet per «occulatare»
eventi e fatti o «produrre» una realtà che giustifichi l'uso degli eserciti
per costruire il «nuovo ordine mondiale» consono agli interessi del libero
mercato. Ma avvincenti sono anche i testi che parlano diffusamente della
vita interna di Nettime, dove la decisione di dar vita a una mailing list
«libera» ha dovuto fare i conti con il quesito se moderarla o meno, una
domanda che torna periodicamente nei gruppi di discussione «politici»
presenti sul web quando l'interattività consentita dalla rete non prevede
mediaziona alcuna.

Il secondo elemento che emerge da Dark Fiber è la critica che l'autore
svolge verso quel luogo comune che accomuna la cultura underground al
pensiero mainstream di una frontiera elettronica inizialmente libera dai
condizionamenti del grande capitale e poi pian piano colonizzata dalle
grandi corporation dell'informatica e delle telecomunicazioni.

Il business, sostiene Lovink, è stato sempre presente in rete: sbaglia
quindi chi guarda al web con la nostalgia verso un passato non contaminato
dalle leggi del mercato. Internet è infatti figlia della produzione
capitalista; ed è per questo che non vanno mai rimossi i conflitti e le
forme di vita che hanno considerato la comunicazione on line come strumento
propedeutico per affrancarsi dalla legge del profitto. Per estensione, si
potrebbe quindi affermare che Internet è stato segnata e plasmata dai
conflitti che l'hanno caratterizzata sin dalle origini. Lovink però
arrischia anche un'ipotesi interpretativa ulteriore. Se da una parte ci sono
sempre state le corporation, dall'altra è cresciuta prepotentemente una
«economia del dono» rappresentata dal movimento dell'open source, cioè
quella produzione di software, spesso sotto forma di cooperazione sociale,
che ha sempre rifiutato le regole del diritto d'autore e che costituisce la
vera variabile indipendente per quanto riguarda il futuro del web.

Sicuramente, i testi dedicati all'ascesa e alla caduta della new economy
sono quelli che meritano maggiore attenzione. In primo luogo perché
spiegano, ad esempio, il titolo: dark fiber è infatti l'espressione usata
per indicare la parte inutilizzata delle fibre ottiche nel trasmettere
immagini, suoni e parole. A prima indagine sembra di assistere a un vero
paradosso: c'è l'hardware, ma non il software. Personal computer sempre più
potenti, fibre ottiche che consentirebbero di trasmettere questo mondo e
quest'altro, ma Internet è usata per l'ottanta per cento solo per la posta
elettronica. Mancano quindi i «contenuti» appetibili per quel miliardo di
persone che si collegano alla rete e che fuggono come lepri di fronte a un
fruscio di foglie appena sentono parlare della necessità di pagare un
balzello per scaricarsi un file musicale o un film in formato digitale.
Internet è gratuita e ogni mezzo è lecito per «piratare» ciò che viene
percepito come un bene comune. Questo è però solo una parte della
spiegazione della crisi della new economy. L'altro aspetto, molto più opaco
e difficile da decrittare pienamente, ha a che fare con la produzione di
merci e con quel circolo virtuoso che vedeva il capitale di rischio
investire in innovazione, la quotazione in borsa di idee e una forza-lavoro
che, in cambio di stock options, lavorava dieci, dodici ore al giorno per
produrre innovazione tecnologica e organizzativa. Come spiegano bene sia
Lovink che Bifo quel circolo virtuoso e quel patto luciferino tra capitale e
forza-lavoro sono semplicemente saltati.

Ma proprio su questa crisi della new economy che si addensono le spiegazioni
più rassicuranti. L'indice che punta sempre al ribasso della borsa produce
sicuramente un impoverimento di chi ha investito nel casinò finanziario,
accelera il processo di concentrazione nel settore dei media e la
convergenza tra telecomunicazioni, informatica e televisione. Sembra quindi
di assistere alla rivincita della «vecchia economia», così come annunciato
dall'elezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Creazione di grandi
monopoli, ridimensionamento della finanza: tutto sembra quindi tornare alla
normalità e Internet sembra rappresentare un incidente di percorso. Non è
così, almeno se si considera il world wide web come un grande laboratorio
dove sono state sperimentate forme nuove di rapporto tra capitale e
forza-lavoro, nuovi processi lavorativi, nuove soggettività messe al lavoro.
Che quelle esperienze abbiano rotto la gabbia del cyberspazio non è certo
una novità. Anzi si può dire che gran parte di ciò che è stato sperimentato
su Internet è diventata la norma sia dentro che fuori lo schermo. Ed è
partendo da questa considerazione che si può tranquillamente affermare che
«l'economia del dono» - reciprocità, strategia dell'attenzione,
valorizzazione delle «risorse umane» - analizzata da Lovink è diventata il
modello dominante per quanto riguarda la produzione della ricchezza.
All'orizzonte non c'è quindi nessun ritorno al passato, bensì un ritorno al
futuro, cioè a quel rompicapo che è il capitalismo flessile. E a quello
straordinario intreccio di mediattivismo e attivismo sociale che si è soliti
definire «movimento dei movimenti». In fondo, la crisi di quel circolo
virtuoso e di quel patto luciferino tra capitale e forza-lavoro è opera
anche e soprattutto dei movimenti di critica alla globalizzazione
capitalista.(da il manifesto, 28/12/2002)


c/


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Se arrivi a un bivio...prendilo!!
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Claudio Tullii


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