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Visto che su Dark Fiber di Geert Lovink sono state dette molte cose interessanti cerchero' di concentrarmi soprattutto su quelle, forse meno importanti, che non sono ancora state dette. Il libro del resto e' molto vasto e per questa volta ci accontenteremo di uno sguardo parziale, limitato.

E' vero: sotto il profilo dell'andamento della lettura Dark Fiber tende continuamente a spostarti su nuovi piani. Lovink sta sempre altrove. Tu insegui il suo ragionamento lungo salite, accelerazioni, precipizi e lui a sorpresa spezza, esce dal frame. Come quando annuncia candidamente "Sloganomics" e infilza veloci sequenze di quasi-aforismi secchi e corrosivi. Alcune perle della collezione:
- Se la guerra del golfo non e' mai avvenuta, allora nemmeno Baudrillard esiste piu' ;
- Logica dot.com: bolla o crollo;
- Smettila di leggere Benjamin, comincia a vivere Benjamin.

Nell'ambaradam testuale di Lovink questi exploit sono come semafori impazziti
lungo i cui incroci scorrono gli UTO (oggetti teorici non identificati). E gli UTO, che a prima vista possono apparire "frattaglie", rimasugli tardonovecenteschi, sono al contrario "embrioni", elaborazioni teoriche "under construction" che vengono ricorsivamente prese e abbandonate nel corso delle scorrerie intellettuali dell'autore. Tutto il libro, nel panorama italiano, si potrebbe definire un irresistibile UTO.

Ma il ragionamento di Lovink "tira" produce "cybersenso" ben oltre questi piacevoli effetti di superficie. Avendo letto "Dark Fiber" dopo "Galassia Internet" di Manuel Castells, ho avuto come l'impressione che ne costituisca l'irrinunciabile complemento. Dove Castells descrive la rete con la misurata e sobria distanza dello scienziato sociale, Lovink insinua invece il suo ritmo soggettivo, alternando entusiasmi e depressioni, appassionate esortazioni all'azione e gelida ironia disfattista.

I piani che si intrecciano sono molti. Il libro e' generoso, con le sue quasi trecento pagine di cinquanta righe ciascuna. Pagine lunghe che viaggiano rapide, tenendoti incollato alle molteplici esperienze lavorative, ai viaggi, alle interviste, alle riflessioni teoriche e tecnologiche di questo inquieto agitatore culturale.

Nell'ambito dei viaggi intercontinentali - e' da presumere svolti al seguito di progetti culturali delle ONG europee - Lovink raccoglie interviste, promuove seminari, smantella e ricostruisce ambienti di confronto e comunicazione. A Tirana, a Taiwan a Delhi e' un continuo sforzo di dare voce, visibilita', attraverso la lista Nettime, attraverso il libro, a programmatori locali, net-artisti, videoattivisti. Sono costanti lungo questi testi i rimandi sitografici, come un voler mantenere in piedi il contatto, uno stabilire nuove prossimita'.

Qui mi pare di cogliere uno dei motivi principali della sua riflessione e della sua azione: il ruolo dei new media in uno scenario planetario ottenebrato dai conflitti identitari e dal mercato delle armi e della guerra. E' a questo punto che Lovink distende i cavi delle sue fibre oscure piu' a fondo. Soffia sul fuoco dell'utopia della globalizzazione di rete senza cedere un solo punto al capitale. Il suo e' un respiro interplanetario che non si fa illusioni ma che non rinuncia all'azione connettiva antagonista, al radicalismo democratico. Che sia proprio questo il momento in cui il conflitto tra utopia e negativismo che pervade il libro trova il suo sentiero piu' impervio e promettente lo capisci via via che scorrono le pagine sul ruolo di Internet nella guerra del Kosovo, su quello dei media nel crollo dell' Impero Sovientico, sulla funzione delle ONG di Soros nell'est Europeo. Pagine che rimettono al centro questioni spesso trascurate, come la reale entita' della produzione culturale di rete, la sua capacita' di contrasto, le sue prospettive planetarie di lungo periodo. Una corrente sotterranea di cui abbiamo capito poco. Quella nuova psicologia delle masse che Lovink invoca inutilmente.
Questo sforzo nel cucire dal basso viene fuori altrettanto bene quando Lovink pone al centro delle attivita' di rete il problema delle traduzioni, quando denuncia la capacita' dei gruppi di potere di "isolare" la rete nelle situazioni di guerra, quando incita a un ribaltamento postmedia delle routine consuete delle conferenze organizzate.

Devo confessarlo: rispetto alla vastita' dei problemi sollevati da Lovink, molte delle pagine di commento - soprattutto questa - hanno il sapore della minestra riscaldata. Come se di fronte a questa brulicante marea di idee e problemi rimanga solo, sorta di messaggio portato a riva dalla corrente, la ricettina del nonno barbuto che tutto risolve perche' tutto ha previsto. Come se questo libro non fornisse segnali di futuro ma solo una triste rassegna di illusioni del passato. Ma questo e' falso, e' completamente falso. Dark Fiber andrebbe invece letto tutte le sere, da tutti, per un anno intero. Perche' ognuna delle questioni che Lovink pone, dalla moderazione delle liste alla figura dell'intellettuale virtuale, dal crepuscolo del giornalismo investigativo alla critica dell'accessibilita' "easy click", costituisce un segnalibro per i grandi temi a venire. Nella tensione permanente tra critica negativa e utopia tecnofeticista si squaderna un presente interamente da recuperare. E c'e' da muoversi in fretta.

buon anno
Rattus Norvegicus



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