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Car*,
una riflessione sulle problematiche filosofiche classiche che si trovano
dentro al film Matrix. Autore Diego Marconi:
Quando uscì in Italia Matrix, avevo appena finito di insegnare un corso di
Introduzione alla filosofia al Politecnico. Quasi subito, ricevetti un
messaggio e-mail dai miei ex studenti, che mi esortavano ad andare a vedere
il film (in realtà, l'avevo già visto) perché "parlava di tutte le cose di
cui mi ero occupato nel corso". Effettivamente, quando Armando Massarenti mi
parlò del ciclo su "Cinema e filosofia", per me fu immediato proporre di
parlare di Matrix. Ma la reazione di Armando fu negativa: non andava bene,
perché era "troppo filosofico". Armando voleva dire: troppo esplicitamente
filosofico. O forse anche: troppo soggettivamente filosofico. Matrix non è
solo un possibile oggetto di riflessione filosofica, ma esercita attivamente
la riflessione filosofica, sostenendo addirittura delle tesi filosofiche.
Prendete per contrasto Barry Lyndon di Kubrick - bellissimo film sulla
dissimulazione. Si potrebbero fare molti discorsi filosofici a partire da
B.L., ma il film (se non ricordo male) non contiene più che tanta
riflessione esplicita.

Matrix è diverso, perché, come avevano notato i miei studenti del
Politecnico, investe esplicitamente questioni filosofiche classiche,
peraltro abbondantemente presenti anche nella filosofia di oggi. Ne cito
quattro, di diverso rilievo:
1) il tema dell'autonomia e dell'autosufficienza dell'artificiale (e quindi
del confine tra artificiale e naturale);
2) il tema del rapporto tra mente e corpo - alla lettera, come vedremo: non
solo tra mente e cervello, ma proprio tra la mente e l'intero corpo;
3) il tema della distinzione tra realtà (o "vita vera") e sogno, o meglio,
il tema della domanda "non potrebbe essere tutto un sogno?"; infine,
4) strettamente connesso al precedente, il tema dell'illusione perfetta, o,
come si usa dire oggi, della realtà virtuale.
Vediamo uno dopo l'altro questi temi - dico già che mi concentrerò sugli
ultimi due, perché sono quelli su cui il film è più suggestivo e in un certo
senso più convincente.



L'autonomia delle macchine

Da secoli ci preoccupiamo della possibilità che, come Adamo si ribellò a suo
tempo al suo fabbricatore, così i nostri Adami si ribellino a noi. L'
archetipo dell'antropoide ribelle è il Golem, la creatura umanoide che si
immagina portata alla vita da Rabbi Judah Löw ben Bezäl in una Praga
cinquecentesca, ma ancora intrisa di spiriti medievali. La leggenda del
Golem risale addirittura al testo ebraico dei Salmi, attraversando tutto il
medioevo. Nella tradizione talmudica, il Golem è "un'immagine con sembianze
di vita, una sostanza embrionica non completa che viene chiamata all'
attività quando, sulla fronte o sulle labbra, le sia applicato l'acronimo
'Shem' ", uno dei molti nomi di Colui che non può essere nominato
(V.Tagliasco, Dizionario degli esseri umani fantastici e artificiali,
Mondadori 1999, p.197). Con i pogrom del Cinquecento il Golem, che era stato
fino ad allora poco più di una scimmietta al servizio di qualche rabbino,
divenne il difensore degli israeliti e assunse un aspetto terrificante; come
dice sempre Tagliasco, "un po' King Kong, un po' Superman rimbambito".
Comunque un personaggio inquietante, perfetto soggetto per un romanzo
espressionista come quello di Gustav Meyrink, Der Golem, del 1914, che fece
conoscere la creatura al mondo culturale non ebraico. Alla fine, Rabbi Löw
disattiva il Golem, che si è reso responsabile di mille malefatte. Ma non
sempre la letteratura ha considerato così facile rendere innocui gli
artefatti ribelli. Il motivo d'angoscia che il pensiero dell'artefatto porta
in sé è legato alla possibilità della sua autonomia: se l'artefatto
sviluppa, o addirittura viene dotato, di una volontà sua propria, questa
volontà - come quella di Adamo - può volgersi al male, o comunque al danno
del suo fabbricatore. L'artefatto autonomo non è più completamente un
artefatto, perché diventa capace della resistenza alla volontà umana che è
caratteristica di ciò che è naturale. L'artefatto è prodotto per essere in
tutto e per tutto permeabile alla volontà di chi lo ha prodotto, cioè per
essere uno strumento. Nel momento in cui non è più completamente prono alla
nostra volontà, l'artefatto cessa di essere tale per un aspetto importante
(da cui l'antropomorfizzazione del PC o della lavapiatti, quando ci sembra
che resistano alla nostra volontà esibendo qualcosa come un'ostinazione). La
garanzia del limite della naturalizzazione dell'artificiale sta nella sua
non autosufficienza. L'artefatto, anche se intelligente e autonomo, continua
a dipendere da noi per la sua attività. Rabbi Löw, più severo col Golem di
quanto Javeh sia stato con Adamo, gli toglie la vita; agli eventuali
supercomputer ribelli "basterebbe staccare la spina", si è sempre detto ogni
volta che i progressi della tecnologia suscitavano qualche ansia. L'
artefatto, anche autonomo, non è però autosufficiente e quindi non è fino in
fondo naturalizzato.

Matrix ha una bella invenzione poetica per ristabilire in pieno l'angoscia
per la possibile ribellione delle macchine: immagina che le macchine,
superintelligenti e autonome, si siano rese anche autosufficienti,
sfruttando l'energia che ricavano allevando bambini umani. L'angoscia si
raddoppia grazie all'inversione della relazione strumentale: non solo l'
artefatto ribelle è diventato autosufficiente, ma lo è diventato
trasformando gli uomini in suoi strumenti: sono gli uomini, ora, ad essere
artefatti delle macchine. L'immagine è potente - anche visivamente - ma, a
dire il vero e per fortuna, non molto convincente. Non è chiarissimo di che
natura sia l'energia che le macchine assorbirebbero dagli uomini, e non si
capisce (pensando agli scambi energetici del corpo umano) come potrebbe
essere sufficiente ai consumi energetici delle macchine. Invece, si può
pensare che la "produzione" di bambini sfrutti tecniche di fecondazione e
gestazione artificiale, e suscitando questo pensiero il film sfrutta un'
altra delle angosce attualmente in circolazione, quella legata alle
biotecnologie. Insomma, abbiamo qui una meditazione non banale sul confine
tra artificiale e naturale.



La mente e il corpo

 Qui sarò brevissimo: mi limiterò a ricordare l'idea che "il corpo ha
bisogno della mente" ("Il corpo non sopravvive senza mente", dice uno dei
personaggi del film), che rappresenta l'inversione del senso comune
materialistico per cui è la mente ad aver bisogno del corpo, in particolare
del cervello. Il corpo ha bisogno della mente, per cui un danno alla mente
è, o comporta, un danno al corpo; non un danno cerebrale, ma un danno al
corrispettivo fisico del corpo vissuto, cioè del fantasma del corpo che è
vissuto come danneggiato nella vita mentale. E' chiaro che, nel film, questa
concezione è motivata da esigenze narrative e di spettacolarizzazione:
bisogna che il rischio che i personaggi corrono nella loro vita virtuale in
Matrix sia a tutti gli effetti un rischio mortale, e che le loro ferite
virtuali siano (anche) vere ferite. Ma anche se i motivi non sono,
probabilmente, filosofici, di fatto il film si trova a sostenere una
concezione spinozistica del rapporto tra mente e corpo: la mente non è il
cervello ma l'intero corpo in una sua possibile descrizione. Nei termini del
film, si tratta di una concezione insostenibile: certamente è falso che se
sogno di avere l'appendicite la mia appendice si infiammi davvero, e d'altra
parte posso avere l'appendicite senza che ciò abbia alcun riscontro nella
mia mente. Tuttavia, la teoria che Matrix assume per esigenze poetiche va
nella direzione, oggi molto praticata, di concepire la mente in rapporto non
al solo cervello ma all'intero corpo: per cui, ad esempio, molti dei nostri
processi cognitivi sarebbero possibili - con l'efficienza con cui noi li
realizziamo - solo grazie al "sapere del corpo", cioè solo grazie ai
meccanismi di interazione con l'ambiente che sono incorporati (appunto) nei
nostri organi percettivi e motori.



"E se fosse tutto un sogno?"

Cioè, e se niente esistesse per davvero - né voi, né questo tavolo, né
Milano qua fuori, né il mio stesso corpo - ma fosse un'illusione completa e
coerente, generata dalla mia mente (come i sogni) oppure indotta da un
agente esterno dotato di un immenso potere di suggestione? Solo la mia mente
(ed eventualmente l'Ingannatore) esisterebbero davvero; tutto il resto
sarebbe "della stessa materia di cui son fatti i sogni", come dice
Shakespeare: fantasmi, immagini, deliri, il tipo di cose che si agitano
nella nostra mente quando sogniamo, ad occhi aperti o chiusi. La capacità
degli esseri umani di sognare e di formare immagini mentali, anche di cose
che non esistono e di situazioni non realizzate, è alla base di questa
antica fantasia filosofica, a cui (nella variante in cui non c'è nessun
Ingannatore esterno) è stato dato il nome di solipsismo: solo io esisto, o
per meglio dire, solo la mia mente. La formulazione canonica, in epoca
moderna e in Occidente, è dovuta a Cartesio. Nella versione di Cartesio, l'
illusione che chiamiamo 'realtà' è prodotta da un essere perfido, un genio
maligno:

Supporrò dunque che vi sia non un Dio ottimo, fonte di verità, ma un qualche
genio maligno e nel contempo sommamente potente ed astuto, che abbia posto
tutta la sua operosità nell'ingannarmi: stimerò che il cielo, l'aria, la
terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne non siano altro
che illusioni dei sogni con cui quel genio ha teso insidie alla mia mente.
Supporrò di essere senza mani, senza occhi, senza carne, senza sangue, privo
di qualsiasi senso e di possedere queste cose solo per falsa opinione.
[Prima meditazione, 1641].

Perché il genio è detto 'maligno', che cosa c'è di malvagio in ciò che fa?
Questa è una domanda di cui non ci occuperemo. In Cartesio, l'ipotesi del
genio maligno è una delle ipotesi scettiche che vengono prese in esame lungo
il percorso che dovrebbe portare ad una fondazione indubitabile del sapere
scientifico. Recentemente, una nuova versione dell'ipotesi dell'illusione
coerente è stata proposta da Hilary Putnam, questa volta allo scopo di
portare acqua al mulino di certe teorie sulla mente e sul linguaggio (di cui
non ci occuperemo). La versione di Putnam assomiglia molto da vicino a ciò
che si immagina realizzato in Matrix (a riprova della popolare tesi secondo
cui non c'è delirio che qualche filosofo non abbia teorizzato):

Immaginate che un essere umano (potete immaginare di essere voi) sia stato
sottoposto ad un'operazione da parte di uno scienziato malvagio. Il cervello
di quella persona (il vostro cervello) è stato rimosso dal corpo e messo in
un'ampolla piena di sostanze chimiche che lo tengono in vita. Le
terminazioni nervose sono state connesse ad un computer superscientifico che
fa sì che la persona a cui appartiene il cervello abbia l'illusione che
tutto sia perfettamente normale. Sembra che ci siano persone, oggetti, il
cielo ecc., ma in realtà l'esperienza della persona (la vostra esperienza) è
in tutto e per tutto il risultato degli impulsi elettronici che viaggiano
dal computer alle terminazioni nervose. Il computer è così abile che se la
persona cerca di alzare il braccio la risposta del computer farà sì che
"veda" e "senta" il braccio che si alza. Inoltre, variando il programma lo
scienziato malvagio può far sì che la vittima "esperisca" (ovvero allucini)
qualsiasi situazione o ambiente lo scienziato voglia. Può anche offuscare il
ricordo dell'operazione al cervello, in modo che la vittima abbia l'
impressione di essere sempre stata in quell'ambiente.[...]
Potremmo anche immaginare che tutti gli esseri umani ... siano cervelli in
un'ampolla. Naturalmente lo scienziato malvagio dovrebbe trovarsi al di
fuori. Dovrebbe? Magari non esiste nessuno scienziato malvagio; magari l'
universo ... consiste solo di macchinari automatici che badano a un'ampolla
piena di cervelli. Supponiamo che il macchinario automatico sia programmato
per dare a tutti noi un'allucinazione collettiva ... Quando sembra a me di
star parlando a voi, sembra a voi di star ascoltando le mie parole.
Naturalmente le mie parole non giungono per davvero alle vostre orecchie,
dato che non avete (vere) orecchie, né io ho una vera bocca e una vera
lingua. Invece, quando produco le mie parole quel che succede è che gli
impulsi efferenti viaggiano dal mio cervello al computer, che fa sì che io
'senta' la mia stessa voce che dice quelle parole e 'senta' la lingua
muoversi, ecc., e anche che voi 'udiate' le mie parole, mi 'vediate'
parlare, ecc. In questo caso, in un certo senso io e voi siamo davvero in
comunicazione. Io non mi inganno sulla vostra esistenza reale, ma solo sull'
esistenza del vostro corpo e del mondo esterno, cervelli esclusi.
(H. Putnam, Brains in a Vat, 1981, pp.6-7)

Come ho detto, l'ipotesi dell'illusione coerente è una fantasia filosofica
classica, a cui sono state date - come è facile aspettarsi - risposte non
meno canoniche. Quel che è interessante di Matrix è che contiene
implicitamente delle risposte a queste obiezioni. Non è molto probabile che
i Wachowski abbiano studiato il problema, o la letteratura filosofica che ne
tratta; dunque, sembra che il fatto stesso di dover realizzare l'ipotesi
dell'illusione coerente porti con sé la consapevolezza di queste obiezioni,
e suggerisca delle soluzioni. Di queste obiezioni, per ragioni di tempo, ne
prenderò in considerazione solo due, molto simili tra loro. La prima si
potrebbe chiamare

(1) L'obiezione della parzialità intrinseca del sogno. La nozione di sogno,
dice questa obiezione, presuppone l'idea di veglia (e di risveglio): da un
sogno dev'essere possibile svegliarsi, dove questo 'deve' non indica una
necessità naturale ma una necessità logica (o, come avrebbe detto
Wittgenstein, una connessione grammaticale). Un sogno da cui non ci potesse
svegliare non sarebbe un sogno nel nostro senso di sogno. Perciò un sogno,
per così dire, globale è una contraddizione in termini: un sogno è
intrinsecamente parziale. Matrix risponde a questa obiezione, perché dall'
illusione computazionale, dalla vita virtuale di Matrix è possibile uscire:
gli hackers protagonisti del film sono appunto dei risvegliati. Certo, non è
chiaro come si esca da Matrix (né del resto come ci si rientri): ma il fatto
che se ne possa uscire la legittima concettualmente: Matrix è un'illusione
che ha un "fuori", quindi è davvero un'illusione - un'illusione nel senso
normale del termine.

L'altra obiezione, simile a questa ma diversa per una sfumatura, si potrebbe
chiamare

(2) L'obiezione della vuotezza dell'ipotesi. Qui si sostiene che un'
illusione globale, coerente e inevitabile non può essere contrapposta alla
realtà perché non è veramente distinta dalla realtà; in verità, non è altro
che la realtà stessa. Spesso noi contrapponiamo l'apparenza alla realtà: il
bastone nell'acqua sembra spezzato ma in realtà non lo è, i segmenti
paralleli nell'illusione di Müller-Lyer sembrano diversi ma in realtà sono
lunghi uguali, e così via. Ma, quando contrapponiamo a questo modo apparenza
e realtà, abbiamo sempre qualche evidenza a favore di ciò che chiamiamo
'realtà'. Il bastone sembra spezzato ma, se lo tocchiamo, lo sentiamo
intero; se lo tiriamo fuori dall'acqua non lo vediamo spezzato, e abbiamo
ragione di ritenere che gli oggetti del tipo dei bastoni non cambino forma
quando sono immersi nell'acqua; e le leggi dell'ottica ci spiegano perché il
bastone, pur essendo integro, ci appare spezzato. L'apparenza ha qualche
ragione dalla sua, ma la realtà ha ragioni preponderanti. Volendo essere
estremisti, si potrebbe dire che chiamiamo 'apparenza' ciò che ha dalla sua
una minoranza di ragioni, e 'realtà' ciò che è sostenuto da ragioni
preponderanti. Comunque, nel caso dell'illusione globale le cose non stanno
così: qui la realtà che vorremmo contrapporre all'illusione non ha, per
ipotesi, nessuna via d'accesso: non abbiamo e non avremo mai evidenze da
contrapporre a quelle che il genio maligno, o lo scienziato malvagio di
Putnam, ci rendono accessibili. Il mondo dell'illusione coincide col mondo
delle evidenze possibili, cioè con la realtà; dunque non è possibile alcuna
contrapposizione tra sogno (o illusione) e realtà, l'ipotesi "che sia tutto
un sogno" è vuota. Nella precedente obiezione si insisteva sulla
contraddittorietà dell'idea di un sogno da cui non ci si può svegliare, qui
si sottolinea che una realtà in linea di principio inaccessibile non potrà
mai essere contrapposta all'illusione. Ma anche in questo caso l'obiezione
non si applica al mondo di Matrix: Matrix, come abbiamo già detto, ha un
"fuori", accessibile con fatica e non si sa bene come ma accessibile, se non
altro agli eroi del film. La realtà - il mondo impoverito e devastato in cui
comandano le macchine e vegetano gli esseri umani - è un sottile contenitore
di un colossale contenuto, Matrix; ma è proprio il suo carattere di
contenitore a farne la realtà, e a fare di Matrix l'illusione. Matrix accade
nella realtà, mentre la realtà non accade in Matrix.



Realtà virtuale

Questa asimmetria mi serve a introdurre l'ultimo tema di cui volevo parlare.
L'idea centrale di Matrix è un'elaborazione dell'idea di realtà virtuale.
Come sapete, gli sviluppi della computer graphics, resi familiari da molti
film di cui il più noto è forse Jurassic Park (S.Spielberg, 1993), hanno
consentito di simulare con grande verisimiglianza immagini tridimensionali
che l'occhio umano non riesce a distinguere da rappresentazioni
fotografiche, cinematografiche o televisive. I dinosauri di Jurassic Park
non sono robot fotografati, ma "disegni" animati, realizzati dal computer e
integrati con le "vere" immagini (= rappresentazioni) degli attori umani.
Fin qui, non parliamo ancora di realtà virtuale ma soltanto di simulazione
grafica. Senonché, è possibile coordinare queste simulazioni a certe nostre
attività percettive e motorie in modo da ottenere quegli effetti di
immersione e integrazione che sono caratteristici del nostro rapporto col
mondo reale. In primo luogo, è possibile far coincidere l'immagine simulata
col campo visivo dell'utente, che a quel punto non vede più l'immagine in
uno schermo e lo schermo come oggetto tra altri oggetti del mondo reale, ma
vede soltanto l'immagine simulata dal computer: si ottiene così un primo
effetto di immersione (il mondo reale, infatti, ci appare anzitutto come il
contenuto del nostro campo visivo: il mondo è ciò che di volta in volta
vediamo). In secondo luogo, è possibile far determinare le proprietà
dinamiche delle immagini dai movimenti dell'utente. La simulazione può
essere completata con proprietà tattili, acustiche, olfattive ecc. Diventa
così possibile, ad esempio, spostare un oggetto toccandolo (in realtà,
modificare l'immagine muovendo una mano, i cui movimenti sono comunicati al
computer attraverso un "guanto"). Si ottiene, in altre parole, una
simulazione completa di un frammento di realtà: per esempio una stanza
ammobiliata, o una strada percorsa da vari veicoli. Ed è questo che si
intende per 'realtà virtuale'. In Matrix, si immagina che la simulazione
possa essere non solo globale anziché frammentaria, ma anche collettiva: una
stessa simulazione è contemporaneamente fruita da molti utenti, che
interagiscono con la simulazione e quindi, indirettamente, anche tra di
loro - così come, nel mondo reale, se io taglio in due una mela la mela è
tagliata in due anche per te, e puoi prenderne metà e mangiarla; e a quel
punto la metà che tu hai mangiato non è più disponibile neanche per me
(questo si intende quando si dice che la realtà è condivisa, o anche che è
pubblica). L'idea di Matrix è quella di simulare la condivisione.

L'idea di realtà virtuale e i tentativi di realizzarla portano con sé
interessanti riflessioni su che cos'è, per noi, abitare il mondo; o più
precisamente, su quali stimoli devono esserci forniti, e in quali
condizioni, affinché la nostra mente costruisca - ad esempio - l'immagine
percettiva di una mela come immagine di una mela reale, e non di una
simulazione di mela (o della fotografia di una mela). Quando guardiamo lo
schermo del nostro computer, non prendiamo per realtà ciò che compare sullo
schermo, per quanto perfetta sia la sua grafica tridimensionale, per quanto
identica sia l'immagine visiva che formiamo a partire dalla mela sullo
schermo all'immagine visiva che formiamo a partire da una vera mela; perché
lo schermo occupa solo una parte del nostro campo visivo, e una parte
relativamente piccola. La realtà è associata al contenitore; se anche lo
schermo del computer non avesse un bordo, e al posto del computer noi
vedessimo solo l'immagine - come in certi schermi molto raffinati che si
vedono ultimamente - l'incoerenza dell'immagine con lo sfondo denuncerebbe
il suo carattere di simulazione. Nel momento in cui l'immagine occupa invece
l'intero campo visivo, il suo carattere di simulazione può evidenziarsi
soltanto se è imperfetta - cioè se è incoerente coi nostri ricordi - oppure
se non è integrata col nostro sistema motorio (tocco l'immagine della mela e
la mela non si sposta, ad esempio). (Un ruolo è forse svolto anche dalla
coerenza dell'immagine, dal fatto che obbedisca alle leggi di natura, ad
esempio). Sembra dunque che le nostre attribuzioni di realtà - il fatto che
trattiamo qualcosa come reale e non, invece, come una finzione, un'immagine,
un'apparenza ecc. - abbiano a che fare con l'integrazione tra percezione e
motricità, con un ruolo importante della memoria (dubitiamo che qualcosa sia
una mela reale perché non assomiglia alle mele - s'intende alle mele che
abbiamo visto e ricordiamo di aver visto). La forza degli hackers di Matrix
sta nel fatto che essi conservano la memoria anche nel mondo virtuale, e
perciò sanno di vivere in una realtà virtuale nel momento stesso in cui ci
vivono - diversamente, si suppone, dagli altri esseri umani. Evidentemente
Matrix - il programma - non è in grado di ricostruire ogni volta la memoria
dei suoi fruitori. E' un limite del programma, ma è ciò che consente al film
di avere un plot: la memoria degli hackers è il loro legame con la realtà, è
ciò che consente loro di portare con sé il contenitore mentre si muovono nel
contenuto.

c/



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