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strategie per la comunicazione indipendente
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Conquistando il mediascape: la guerra inizia nei media
http://newbrainframes.org/journal/art.php3?id=443&tid=3&anno=2003
Stefano Minguzzi - 2003

La guerra incombe minacciosa sulle nostre prossime notti. Milioni di persone 
stanno con il fiato sospeso difronte alla piu’ grave crisi internazionale 
dalla crisi dei missili a Cuba. Tutto il mediascape e’ gia’ in subbuglio da 
settimane. C’e’ bisogno di organizzare l’informazione, assicurare gli 
investimenti a quei programmi graditi e privandone quelli sgraditi. 

I grandi inserzionisti di Manhattan non dormono piu’ sonni tranquilli. 
Merrill Lynch e Gucci hanno gia’ comunicato alle proprie agenzie che 
sospenderanno tutte le loro campagne durante i giorni del conflitto. 

William Holiber, di US News of World Report, racconta che la guerra getta 
fumo negli occhi degli inserzionisti e sta imponendo uno stop per attendere 
l’evolversi della situazione. Mel Berning, presidente della US Broadcast 
MediaVest Worldwide, gli fa eco chiedendosi pero’ quanto incidera’ questa 
attesa sui budget nei prossimi 18 mesi. 

Il settore della pubblicità sta gia’ pagando la persistente crisi economica. 
Nel 2002 il budget speso per l’advertising e’ salito di appena il 2,6 per 
cento, il risultato piu’ basso dal 1938. Per il 2003 si prevedevano tassi 
attorno al 10 per cento, ma oggi, con la guerra alle porte la forbice si e’ 
allargata tra un modesto 3% ed un ridimensionato 7%. D’altronde il blocco 
della pubblicita’ coinvolge trasversalmente tutti i settori economici: 
compagnie aeree, energietiche e petrolifere, servizi finanziari come 
assicurativi, beni di lusso e viaggi. 

Tutto dipendera’ dalla effettiva durata di questa guerra: David Loft, un 
analista della CIBC World Markets, si chiede perche’ investire ora se tra due 
mesi lo si potra’ fare in tutta sicurezza. L’esercito USA non e’ estraneo a 
questi calcoli. Infatti sta spingendo per una drastica riduzione degli spot 
pubblicitari per non sovrapporre i propri messaggi con quelli di altri 
potenziali concorrenti. Tutto cio’ perche’ i media sono considerati uno dei 
teatri di battaglia di questa guerra. Il compito e’ tutt’altro che difficile: 
la maggior parte degli inserzionisti non ha alcuna intenzione di far capitare 
i propri messaggi vicino ai bollettini di guerra. 

Si viene a creare una situazione quasi paradossale: la scomparsa della 
pubblicita’ colpira’ prevalentemente quelle testate che daranno spazio alle 
informazioni sulla guerra. Edward McCarrick del Time ammette che gli 
inserzionisti sono interessati a spendere solo per le sezioni che si 
occuperanno di cultura, tecnologia, scienza, ma non di guerra. Cosi’ come 
successo per l’11 settembre il problema sara’ trovare inserzionisti per le 
pagine degli editoriali del periodico. 

La strategia della CNN, rete assolutamente protagonista nella prima guerra 
del golfo, e’ quella di non accettare inserzionisti per le prime settimane di 
guerra, per poi modificare il proprio mix puntando sul ritorno graduale alle 
nomrali abitudini di consumo. Se l’intervento USA in Iraq sara’ breve come 
promesso, la CNN prevede di tornare alla normale rotazione degli 
inserzionisti nel giro di poche settimane. Altrimenti dovra’ rinunciare ad 
alcune categorie come i viaggi ed i tour operator. 

Ma non sono solo le strategie future a preoccupare. Il canale musicale MTV 
(Ives, NewYork Times del 13.03.03), appellandosi ad una policy interna, si e’ 
rifiutata di passare uno spot pacifista girato da Barbara Kopple (2 Academy 
Awards). La norma citata doveva servire per evitare che grosse lobbies 
potessero influenzare la linea editoriale del canale. Alex Jones, direttore 
di Joan Shorenstein Center on the Press, ritiene irresponsabile questo 
atteggiamento perche’ impedisce di dare informazioni importanti su questioni 
ancora molto controverse. 

Grazie all’acquisto di spazi sui canali locali che trasmettono MTV su NewYork 
e LosAngeles lo spot di Not In Our Name e’ riuscito ad aggirare il niet. La 
soluzione e’ stata suggerita da un gruppo di avvocati che ha incoraggiato 
l’acquisto di quegli spazi pubblicitari riservati per legge alle pubblicita’ 
locali o dei singoli canali dei network. 


Se l’inizio della guerra e’ un momento situato ancora nel prossimo futuro per 
le agenzie pubblicitarie, la battaglia per la conquista del mediascape e’ 
gia’ iniziata.
L’opinione pubblica americana come quella europea viene inondata di notizie 
dagli angoli piu’ remoti del pianeta. Prima dell’11 settembre notizie 
sull’orientamento politico della gioventu’ saudita, piuttosto che la chiusura 
di un quotidiano basco, sarebbero rimaste relegate ai lanci delle agenzie 
stampa. Oggi e’ assolutamente prioritario, dunque, controllare questo flusso. 

Nelle ultime settimane persino la propaganda USA sta subendo pesanti 
attacchi. Proprio i media americani si stanno iniziando ad interrogare sui 
punti deboli dei teoremi pro e contro la guerra. Paul Krugman, del New York 
Times, suppone che il legame tra Iraq e al Qaeda sia piu’ che altro un 
risultato delle campagne mediatiche. 

Non c’e’ evidenza che i rapporti intercorsi tra l’organizzazione di bin Laden 
e il regime di Bagdad siano stati diversi da quelli con lo Yemen, l’Arabia 
Saudita o lo stesso Pakistan. L’opinionista americano individua nei media la 
principale fonte di questa convinzione. Si e’ semplicemente sostituita 
l’immagine di bin Laden con quella di Saddam Hussein. 

La CNN rileva che il 76% degli americani e’ convinto che vi siano prove 
attendibili di aiuti dell’Iraq ad al Qaeda, mentre il 72% crede che Saddam 
sia conivolto negli attentati dell’11 settembre (punto su cui nemmeno 
l’amministrazion Bush ha mai insistito). Come nella celebre teoria della 
spirale del silenzio di Neumann i media rafforzano le convinzioni 
preesistenti nel loro pubblico e queste portano con se’ grappoli di 
convinzioni correlate. 

Nonostante i numeri esibiti dalla CNN sono ancora molte le voci critiche che 
si levano contro l’intervento. Per esempio Michael Moore, regista del 
documentario Bowling Coloumbine, ha pubblicato un libro fortemente satirico 
nei confronti dell’ amministrazione Bush: Stupid White Men.
Moore, che alla British Book Award di Londra ha vinto anche il premio Book of 
the Year, attacca duramente le posizioni interventiste. E’ interessante 
notare che il libro e’ si’ bestseller in Germania, paese schierato nel fronte 
dei pacifisti, ma anche in USA, Gran Bretagna e Australia, dimostrando che 
gli schieramenti travalicano i confini nazionali. 

Mentre l’opinione pubblica nordamericana si interroga sugli eccessi della 
propaganda mediatica in Spagna la Guardia Civil chiude lo storico quotidiano 
di lingua basca Egunkaria.
Sotto la bandiera della lotta al terrorismo il governo Aznar ha deciso di 
compiere un vero e proprio giro di vite. Il 22 febbraio Egunkaria e’ stato 
chiuso per collaborazione o appartenenza all’ETA e sono stati arrestati i 10 
responsabili editoriali. All’interno di questa stessa operazione sono state 
anche perquisite le redazioni delle riviste Argia e Jakin e persino le scuole 
di lingua basca. 

Intanto sui cieli di mezza Europa si moltiplicano le nuove voci dei canali. 
La televisione satellitare dei Disobbedienti, GlobalTv, ha ripreso a 
trasmettere e promette di giocare un ruolo tattico nel ribilanciamento dei 
media. NoWarTv, al contrario, e’ un progetto che nasce in questi mesi 
sull’onda delle reti e dei movimenti contrari alla guerra in Iraq promosso da 
Emergency, Rete Lilliput e Tavola per la pace. A breve diventera’ un network 
che comprendera’ anche una radio ed un sito internet. Le due nuove voci 
contano di divenire dei punti di riferimento fissi per i movimenti italiani e 
non solo e per rompere il muro di gomma dell’informazione di guerra. 

Ad affiancare queste due esperienze nostrane ci pensa anche l’Algeria. 
Khalifa Tv e’ un canale algerino con sede a Parigi di proprieta’ dell’omonimo 
miliardario. E’ un tentativo tutt’altro di fare concorrenza alle altre 
televisioni in lingua araba: Al Jazeera (dell’Emirato del Qatar) e Al Arabya 
(finanziata da capitali sauditi e libanesi e ben vista dagli USA). Il 
progetto pero’ non e’ rivolto solo all’informazione, ma piuttosto punta alla 
creazione di un impero mediatico stabile che affondi le sue radici nella 
cultura araba meditarrenea e mediorientale soprattuto se trapiantata in 
Europa. 


Intanto in Italia il governo Berlusconi presenta il suo piano di riassetto 
del settore televisivo che prevede una riduzione la presenza della TV 
pubblica. Il disegno di legge prevede l’incorporazione della RAI-
radiotelevisioneitaliana SpA in RAI Holding SpA al fine di procedere alla sua 
privatizzazione. Si punta a liberalizzare il mercato eliminando qualsiasi 
barriera e regola di funzionamento dell’informazione, dei rapporti tra carta 
stampata e emittenti televisive e più in generale qualsiasi separazione tra 
le telecomunicazioni e il mezzo televisivo. 

In un paese come l’Italia dove la televisione e’ Berlusconi, questo progetto 
si tradurra’ in un ruolo completamente subordinato delle comunicazioni di 
massa alla logica economica. Inoltre sara’ possibile per la Mondadori 
(Berlusconi) acquistare quote della RAI privatizzata e per Mediaset 
(Berlusconi) entrare nel capitale del Corriere della Sera condizionando le 
posizioni politiche pro intervento. 

Quanto succede nel Belpaese e’ tanto piu’ grave se si da’ ascolto allo studio 
condotto dalla Sacred Heart University Polling Institute sulla fiducia delle 
audience ai vari canali di informazione. La ricerca dimostra che se la CNN e 
la FOX vengono accreditate dall’opinione pubblica della maggiore accuratezza 
dei propri servizi, e’ pero’ la PBS (il canale pubblico USA) ad essere 
considerata la piu’ veritiera dal pubblico americano. 

Scoperte interessanti vengono anche dal tasso di fiducia nelle notizie 
riportate dalle televisioni: il 27% crede a tutto, mentre il 60% crede a solo 
una parte e il 12,5% crede a poco o nulla dei servizi informativi. E’ 
interessante rilevare anche che solo il 28% della popolazione americana 
guarda la TV come principale fonte di informazione. 

E in effetti anche il cyberspace e’ coinvolto nel conflitto mediatico. E’ 
notizia di pochi giorni fa (Baard, Wired del 15.03.03) che Christopher 
Allbritton, un reporter del NewYork Daily, inserira’ nel proprio weblog i 
suoi articoli dal fronte. L’obiettivo di Allbritton e’ quello di documentare 
gli effetti degli attacchi americani sui civili in Kurdistan. 

Si puo’ supporre che molti pacifisti e scudi umani presenti nelle aree del 
conflitto faranno filtrare immagini e notizie piu’ rapidamente dei canali 
satellitari di all-news. E’ probabile pero’ che l’attuale architettura del 
web, fortemente dipendente dai server USA, sia il tallone d’Achille della 
presunta alternativa online ai mezzi di informazione di massa.

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