Io non vivo l'anacronismo solo come un piacere insostituibile. Ho anche la convinzione che sia una cartina tornasole estremamente utile. Una volta mi capito' di sentire una conferenza in cui Gianni Degli Antoni, guru dell'informatica milanese anni ' 70, affermo' una cosa molto singolare: " ben l' 80% del genere umano e' vivente".

Con cio' intendeva dire che la crescita demografica era stata tale che il numero degli esseri umani, dalle origini dell'umanita' fino ai primi del Novecento, risulta complessivamente inferiore di cinque volte al numero di esseri umani attualmente viventi.
Non ho mai avuto modo di verificare questa affermazione del professore, ma la considero credibile.


In una simile prospettiva cio' chiamiamo storia, e a cui continuiamo a ispirarci, rappresenta in realta' un 20% della storia dell'umanita'. Il resto e' tempo reale, o quasi.
Se vogliamo prendere sul serio questo punto di vista, se ne puo' ricavare che gli ultimi cinque anni sono umanamente (e storicamente) piu' densi degli ultimi cinquecento.


Nel mondo dell'informazione si insegue ostinatamente la novita'. E in qualche settimana tutto cio' che accade diviene obsoleto. Manca la capacita' di riflettere con occhio storico su cio' che accade nel passato prossimo. Come se il fatto del mese scorso o dell'anno scorso divenisse immediatamente piu' lontano, nella memoria, dei grandi fatti del passato.
Mi pare che si perda in questo modo l'organizzazione logico-temporale "minima" che permette di affrontare gli aspetti ciclici dei fenomeni sociali. Tutte quelle forme che, nel loro ripetersi in variazioni di grado e di intensita', mostrano nel tempo degli elementi continui, gettando qualche luce su questo denso (e ingarbugliato) presente. Qui l'anacronismo non solo e' necessario, ma va incoraggiato con determinazione. E' una buona abitudine quella di provare sempre a distinguere tra tempo ciclico e tempo lineare.
Questo preambolo un po' vanesio mi serve ad introdurre qualche considerazione piu' spicciola.
Anche per quello che riguarda le vicende dei movimenti si continua a monitorare il presente e si stenta ad elaborare una prospettiva di maggior respiro. Ci si chiede: a quali lotte del passato, a quale punto dell'evoluzione storica del movimento operaio (o di quello degli studenti) puo' essere paragonato questo o quel fatto recente ? Oppure: qual e' la prossima mossa da fare?
Se le cifre che riportava Degli Antoni sono vere, forse queste NON sono buone domande.


Le concatenazioni degli anni ' 90 - se prendiamo per buona questa prospettiva dell'accelerazione storica - diventano gli elementi su cui vale davvero la pena appuntare l'attenzione.
A questo anacronismo mi ha spinto in questi giorni la lettura di un ottimo libro: "La cultura Hip Hop" di Hugues Bazin, edito in Italia da Besa editore e uscito per la prima volta in Francia nel 1995.
Il testo mi ha fatto riflettere sul fatto che i fenomeni socio-culturali di maggiori rilievo nel decennio '90 sono stati, Internet, l' Hip Hop, i centri sociali. Dove per Internet intendo il fenomeno generale dell'informatica alternativa:
Software libero - Blog Culture - Media Attivismo
In merito all' Hip Hop segnalerei la classica tripartizione: Break dance - Graffitismo - rap. (Probabilmente anche cyberpunk e' ancora una parola "buona").
Ad ogni modo queste forme hanno mostrato una durata. Sia pure tra alti e bassi, ognuna di esse s'e' rivelata insistente, pervicace, ostinata.
Forse queste linee andrebbero collocate in qualche tipo di grafico, magari di quelli a pallocconi circolari che permettono di individuare le intersezioni i punti in comune in queste espressioni culturali.


Poi sarebbe un gioco divertente (un passatempo da spiaggia, per intenderci) prendere concetti come ad esempio "esodo" e farli scorrere su queste sfere, per vedere i punti di intersezione.

E' molto probabile che le definizioni piu' rigorose di esodo, per esempio quelle fornite da Virno, siano molto lontane dal concetto di esodo come lo intendeva, poniamo, Afrika Bambaataa. Ma qui sta il bello. Perche' gia' un autore contaminato con l'hip hop e la cyberculture come Bifo fornisce dell'esodo una lettura decisamente piu' prensile, duttile, plastica.
Allora si potrebbe scoprire, per esempio, che tutta la storia del software libero si presenta come la storia di una comunita' esodante. C'entra qualcosa con il mito rastafariano ? Non sembra. C'entra qualcosa con le fughe degli operai verso la frontiera statunitense di cui parlava Marx ?
A prima vista pare di no.


E che ruolo ha avuto il culto dell'autoperfezionamento come "difesa" biopolitica, caratteristico della cultura hip hop, nell'evoluzione del software libero e dell'etica hacker ? Tra i difetti del libro di Pekka Himanem (Etica Hacker) c'e' proprio questa omissione delle "somiglianze di famiglia" che si colgono nei ghetti newyorkesi quando si confronti l'hip hop e la controcultura informatica "attiva" alla Stallman.
Come leggere diversamente il testo di Bazin quando ad esempio dice:


"Lo spirito della sfida nell'hip hop differisce dallo spirito di competizione a cui la societa' educa sin dalla piu' tenera eta', non essendo legato alla conquista di uno status sociale ed economico, ma all'affinamento della propria creativita' "

L'approccio alla Himanem, e in parte alla Castells, spinge a pensare che il software libero sia roba da "tacchini freddi" in un dipartimento di computer science. In realta' proprio ieri mattina Zucconi su "La repubblica delle donne" ha disegnato un bozzetto credibile di uno smanettone californiano che, dopo la crisi della new economy, ha gironzolato per anni lungo le strade di San Francisco vivendo di espedienti in un camper.
Bazin, per parte sua, discutendo dei graffitari, scrive:


"Ogni atto corrisponde alla ricerca di una soddisfazione personale, ma va visto anche come un messaggio lanciato agli altri membri del movimento, al cui interno acquista un senso preciso. La ricerca dell'emozione e quella di un riscontro sono dunque inseparabili".

Anche se ci soffermiamo sulle continue polemiche violenza/nonviolenza scopriamo che almeno alcuni dei malintesi sono dovuti all'incomprensione del ruolo che ha avuto la nonviolenza nella cultura hip hop. Un ruolo ancora una volta di resistenza. Niente a che vedere, insomma, con le lagnanze perbenistiche delle aree cattoliche. Come scrive Bazin:

"L' Hip Hop s'inscrive naturalmente in un ruolo di mediazione dove la non violenza testimonia l'adozione di una strategia responsabile. Questo atteggiamento parte dalla constatazione che la violenza, anche quando viene scatenata da movimenti legittimi contro le ingiustizie, si ritorce sempre contro i piu' svantaggiati".

Qui c'e' qualcosa che, pur nel degrado di molte comunita' hip hop, massacrate, nonostante le buone intenzioni, dal crack e dalla lotta tra bande, continua a indicare percorsi di lotta autentici. Scelte che spesso sono seguite a maturazioni dolorose, avvenute in territori metropolitani difficili, come i ghetti neri. Possiamo fingere di non saperlo ?

Ovviamente quanto ho scritto a molti sembrera' del tutto scontato. Ed e' fuori discussione che queste linee di esplorazione e ricerca sono state gia' percorse da molti osservatori piu' acuti del sottoscritto.

Saluti
Rattus

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