[EMAIL PROTECTED] ha scritto:

> 
> Anche Wenders aveva raccontato una storia di questo tipo ricordate "Lo
> stato delle cose"? La troupe in un albergo abbandonato dell'Algarve aspetta
> che arrivino i soldi e i produttori non si fanno vivi... Molto più concreto
> e molto più drammatico questo Terry Gilliam Lost in La Mancha. Qui ci viene
> raccontata la storia vera del fallimento di un progetto: il progetto di un
> film tratto dal capolavoro di Miguel de Cervantes.
> Come Orson Welles, anche Gilliam coltiva da anni l'idea di portare nel
> cinema Don Quixote. Siamo in un deserto spagnolo. La produzione fino a
> questo momento ha dovuto affrontare innumerevoli difficoltà. Finalmente si
> cominciano le riprese. Purtroppo la location é stata scelta male. E'
> prossima a una base NATO, aerei supersonici solcano il cielo interrompendo
> le riprese. Jean Rochefort é perfetto per la parte, guardatelo con la sua
> faccia smilza, il suo mento appuntito, stizzito vorrei dire, con la
> bacinella in testa e la lancia. Purtroppo, nella realtà della vita, ha un
> attacco di prostata, non può salire a cavallo, sta male. Deve ripartire per
> Parigi. Ha una doppia ernia al disco. Le scene in cui compare lui debbono
> essere rimandate. Nel frattempo viene un temporale pazzesco che rovina i
> macchinari se li porta via.... la troupe cerca di salvare il salvabile, ma
> dopo il temporale purtroppo la luce é cambiata il colore del deserto é
> cambiato. Occorre buttare via tutto quello che é stato girato... everything
> in total disarray. Il caos, il panico.
> E Gilliam aveva inziato le riprese con la spavalderia di chi sa che
> l'impresa é difficile, quasi impossibile. Le cose facili non mi interessa
> farle, se é impossibile allora ci provo... Generoso avventurista che
> comincia a sentire la vecchiezza, Gilliam si confessa: avrei dovuto fare
> più film, ho sessantun anni e comincio ad essere vecchio.
> 
> Assomiglia a Felix Guattari, questo Gilliam. Gli assomiglia fisicamente, la
> sua faccia, il suo modo di muoversi, ma soprattutto il suo gesticolare
> generoso, affabile, un modo che serve per dare coraggio agli altri, per
> dire é possibile, ce la possiamo fare...
> Ma quando Felix mi diceva: coraggio, ce la possiamo fare, continuiamo,
> andiamo avanti, io sentivo che c'era in lui una fragilità inconfessabile.
> Non ci credeva che ce l'avremmo fatta, altrimenti non lo avrebbe detto, non
> lo avrebbe detto così. Gilliam e l'aiuto regista hanno una determinazione
> da anglo-americani, gli altri sono tutti spagnoli francesi italiani, sono
> più realisti, più codardi, se vuoi. Non sono pronti per le grandi imprese
> impossibili. Don Quixote lo era, e non ha mai receduto, insomma, fin quando
> non é stato pronto per morire...
> Don Quixote é allora la metafora del pragmatismo utopista degli americani
> che sfidano l'impossibile con concretezza pragmatica? oppure, tutt'al
> contrario é la metafora dell'insistenza rimbambita su valori antichi che
> non hanno pià corso nel mondo presente: i valori della cavalleria in un
> mondo borghese, i valori dell'umanesimo nel mondo postumano, i valori di
> una società solidale nel mondo ritornato all'homo homini lupus?
> Commuove l'insistenza quasi disperata di Gilliam, quando nello studio di
> posa che non é altro che un magazzino dall'acustica disastrosa si rende
> conto che non c'é più niente da fare, poi la determinazione di Gilliam e
> del suo aiuto-regista americano deve chinare il capo davanti alle pretese
> economiche dei finanziatori, delle assicurazioni, e davanti
> all'invincibilità degli eventi incontrollabili, e allo scetticismo dei
> collaboratori europei.
> "Non riesco più a immaginare il mio film" dice Gilliam, nel momento più
> triste e più tenero. Quando ci si arrende, non é forse quello il momento in
> cui si scopre una verità che era chiara fin dal primo istante?
> "Non riesco più a immaginare il mio Don Quixote" dice Gilliam al telefono
> parlando con qualcuno (una amica? una fidanzata, un'amante, una moglie? una
> figlia? Certamente una donna, perché solo le donne hanno capito fin da
> principio che non c'é proprio niente da fare). Don Quixote potremmo
> leggerlo anche così, come l'archetipo dell'imbecillità maschile che muove
> inutilmente il mondo.
> Don Quixote non ha mai smesso di saper immaginare. Questa era la sua forza,
> solo questo sapeva fare Don Quixote: immaginare, e la sua immaginazione non
> defletteva, non cadeva, non perdeva la strada, fin quando non é finito come
> voi sapete.
> Ricovero d'urgenza, fleboclisi nel braccio, i parenti stretti che camminano
> avanti e indietro in corridoio. "Non c'é più niente da fare" sussurra la
> sorella, la figliola o la nipote...
> 
> cari amici ricombinanti, per il terzo anniversario di Rekombinant vi volevo
> raccontare qualcosa, e vi ho raccontato il film di Keith Fulton e Louis
> Pepe con Terry Gilliam e Don Quixote.
> Perché mi é sembrato che la metafora sia ancora vitale, pronta a nuovi
> contesti a nuovi misunderstanding, a  nuove illusioni e delusioni. Quali?
> Vedremo quando il caldo (se mai vorrà farlo) si attenuerà.
> Che un finale shakespeariano si prepari é probabile (penso a Macbeth, a
> Blair a Bush e ai nostri ridicoli tiranni locali) La potenza del mondo
> obnubilata dalla sua propria follia, dall'indelebile sangue che insozza le
> mani. Ma noi? noi cosa inventeremo per rendere il precipizio più abitabile?
> 
> abbracci e baci (sebbene forse un poco sudaticci)
> 
> 

Scrivo, dopo tale bellissimo messaggio, emergendo anch'io dal sudaticcio.

Un "che fare?" dopo don chisciotte e gillian: mica male come questione!!!

Purtroppo mi sono perso il film che anche a me attirava moltissimo -
dannazione lo sapevo che dovevo andarlo a vedere - e dunque prendo spunto da
quanto detto da te, Franco, per riparlare, anche, di RK.

Aggiungo solo una piccola cosa alle tante belle che hai scritto: forse non è
vero che don Chisciotte (e ce lo dice Foucault nelle pagine di "le parole e
le cose") rappresenti l'imbecillità maschile che muove il mondo (anche se
sono stati quasi sempre i maschi a combinare i disastri di questo mondo); e
forse non è un illuso: don Chisciotte si muove in un universo in brandelli,
a pezzi (che non è più nemmeno quello cavalleresco ma addirittura quello
della "bella rappresentazione" tratta dai romanzi cavallereschi): la carta
del mondo è distrutta, se ne sono perse le tracce, i segni sono sballati.
 
E' il momento del passaggio, secondo Foucault: "con i loro giri e rigiri le
avventure di Don Chisciotte tracciano il limite: in esse già nuovi rapporti
si stringono. Don Chisciotte non è l'uomo della stravaganza ma piuttosto il
pellegrino meticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della
similitudine. E' l'eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanasi dalla
familiare pianura che si stende attorno all'Analogo, proprio non riesce ad
allontanarsi dalla sua angusta provincia. I romanzi di cavalleria hanno
scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura. E ogni
episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del fatto che Don
Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui ricalcati. Ma se
vuole essere loro somigliante è perché deve dimostrarli...Don Chisciotte
deve fornire la dimostrazione a e farsi portatore del segno
indubitabile...La scrittura e le cose non si somigliano. Tra esse Don
Chisciotte vaga all'avventura."

Però c'è dell'altro, c'è una novità. Il libro si ripiega su se stesso,
continua Foucault: Don Chisciotte, ora, vaga solo dentro al linguaggio, che
si fa beffa crudelmente delle ultime possibilità di rappresentare il mondo,
le similitudini (e in questo è la prima delle opere moderne).

E allora cosa ci dici? cosa, mi pare, ci dice Gilliam, e prima, forse, Orson
Welles? Certo l'insentatezza dell'immaginazione. Certo la disillusione dopo
l'illusione. Certo la beffa nel comprendere e l'impossibilità di immaginare
un mondo altro. Ma forse - e non per cinismo nè ottimismo - non è qui che
viene il bello?
Il poeta e il folle, lo sconfitto (rilevati da Gillian, da guattari), sotto
il previsto - o meglio ciò che ci sembra in apparenza sempre previsto,
scontato - ci indicano la strada per ritrovare i linguaggi ulteriori, nuovi.
Nelle pianure del medesimo il folle ricava, ce lo dice ancora Foucault,
somiglianze sgangherate: vede amici dove non ci sono che estranei.
Il poeta, dalle differenza produce somiglianze. Si tratterebbe - cosa non
facile - di muoversi strategicamente in questa sottile pellicola. Di
alimentarsi di essa. Alimentiamoci
Noi continuiamo così che, forse, va - un po' - bene.


abbracci e baci a franco e a tutti anche da parte mia
buona estate
federico m




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