Nell’ordine disordinato del sistema mondo

“Appare indubbio che devono rispondere di devastazione non solo coloro che hanno posto 
in essere condotte materiali di danneggiamento e incendio, ma anche le persone che pur 
senza avere materialmente concorso in tale attività, ne hanno agevolato l’esecuzione 
con il porre in essere condotte rafforzatrici dell’altrui proposito criminoso.”

Traggo questo estratto dall’ordine di arresto emesso dal GIP genovese Elena Daloiso 
dalle pagine di Liberazione del dicembre scorso. E’ il supporto che, tra le altre 
cose, ha condotto in carcere, o agli arresti domiciliari, ventitrè persone. 
Esplicazione per quella che è stata definita, suscitando qualche meraviglia, 
“compartecipazione psichica ai fatti delittuosi” spesso accompagnata dal giudizio di 
“indole violenta” per i soggetti protagonisti.
Chi, come me, ha già attraversato diverse stagioni della vita non può fare a meno di 
andare con la memoria ad un altro periodo storico, i processi degli anni ’80, dove 
l’uso estensivo del “concorso morale” portò a comminare migliaia di pesanti condanne 
ai militanti della lotta armata. Fu uno dei cardini giudiziari che supportò una 
violenta azione repressiva nei confronti della sinistra radicale e non solo.
Le leggi speciali, d’emergenza come furono definite, sono ormai patrimonio permanente 
del nostro codice penale. Un po’ di quella filosofia la ritroviamo in toto 
nell’ordinanza genovese. Di più, assistiamo in verità ad un ulteriore salto di qualità:
se il concorso morale, pratica aberrante, puniva soggetti “interni” ad un disegno 
definito eversivo, che con la loro condotta materiale, in quanto militanti di 
organizzazioni armate, contribuivano al loro sviluppo, con l’accusa di 
compartecipazione psichica si assiste all’assunzione della mente, del comportamento 
psicologico presunto quale fonte di prova accusatoria. 
Pertanto si può essere incolpati, parliamo di incidenti di piazza, è bene non 
dimenticarlo, d’essere protagonisti di chissà quali misfatti semplicemente perché si è 
fotografati vicino ad un gruppo di manifestanti “violenti” in atteggiamento calmo e 
neutrale. Non si interviene a dissuadere i riottosi, dunque si è complici. E’ questa 
la vicenda che ha coinvolto, ad esempio, i due militanti dei Cobas romani. 
L’intenzione, presunta, diventa protagonista nel processo di militarizzazione dei 
comportamenti. 
Un assioma illegittimo e pericoloso.

Ritrovo, dopo diversi mesi, questi appunti tra le scartoffie dimenticate nel disordine 
della mia scrivania.
Nel frattempo dei ventitrè arrestati nessuno parla più. Tuttora inquisiti sono usciti 
dal carcere accompagnati dalle più svariate forme alternative alla detenzione: 
dall’obbligo di non uscire dal comune di residenza agli arresti domiciliari. 
Seppelliti nell’oblio dal fragore della guerra consumata.
Un silenzio assordante per quanto riguarda il movimento, annichilito di fronte alla 
“specificità” delle accuse e incapace dell’indignazione provocata dalla grossolanità 
dell’inchiesta cosentina. Silenzio quasi imbarazzato, come se Genova non fosse un 
patrimonio comune al di là delle differenze e delle piazze tematiche. Il che non vuol 
dire condividere tutte le espressioni della piazza, anzi, ma lo spirito di “Genova per 
noi” ci appartiene e ci accomuna.
Ma altro è il discorso che voglio affrontare.
Non butterò i vecchi appunti perché qualcosa attira ed attualizza la mia curiosità: 
corpi, psiche, comportamenti derivanti dalla guerra.
Nello scontro iracheno la guerra ha un ritorno all’antico. Il corpo riacquista una sua 
centralità nella sofferenza. La sua materialità entra nel nostro quotidiano attraverso 
le immagini dei soldati iracheni uccisi nei loro posti di combattimento o grazie ai 
volti smarriti e pieni di paura dei marines fatti prigionieri e più tardi liberati dal 
repentino crollo del regime di Saddam. Sono carne e sangue che vengono sbattuti sul 
volto delle belle coscienze della guerra umanitaria, ossimoro dell’assurdo, e anni 
luce ci separano dalle riprese asettiche della prima guerra del golfo. Ricordate? Fu 
il trionfo della CNN e la guerra ridotta a gioco macabro di traccianti verdolini che 
accompagnavano le nostre serate davanti al piccolo schermo. Irreali e lontane. Assurde 
nella loro drammaticità, tanto assurde da farle rassomigliare ad un gioco che ha 
assunto ben presto una sua triste normalità.
Perché è questa una delle prime considerazioni. La guerra ha smarrito la sua 
eccezionalità, o se preferite, la straordinarietà, per divenire elemento ordinario del 
vivere sociale. La politica si fa guerra entrando a pieno titolo nel sentire comune. 
Conseguenza logica e non impazzimento dello “sviluppo neoliberista” dove l’antico 
concetto di mediazione è superato ed inadeguato alla necessità dei tempi. Non sono più 
i giorni della pietas e altre categorie interpretative guadagnano la ribalta operando 
una vera e propria rivoluzione culturale. Infatti basta leggere con occhi disincantati 
l’ultimo conflitto mesopotamico e la filosofia che l’ha sostenuto e che condurrà nel 
breve/medio periodo ad altri lutti e distruzioni. 
E’ opinione comune che l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre segni lo 
spartiacque della politica estera statunitense. “Nulla sarà come prima” si dice da più 
parti, sottolineando una sorta di svolta epocale indotta da quell’avvenimento. Al di 
là dell’innegabile choc provocato dalla strage nel cuore di Manhattan ben più profonde 
sono le radici sulle quali si basa la politica dell’attuale amministrazione che siede 
alla Casa Bianca. 
Li chiamano i neoconservatori e conobbero le loro prime fortune sotto la presidenza di 
Ronald Reagan. Dopo le frustrazioni degli anni ’90, nell’era del democratico Clinton, 
oggi conoscono i maggiori successi. 
Il loro progetto è semplice e spregiudicato: supremazia militare sull’Eurasia, 
prevenzione, manu militare, contro qualunque potenza nascente, insomma una visione 
unipolare degli interessi statunitensi nel mondo, visto come un’immensa nuova 
frontiera e la guerra permanente come strumento di regolamentazione e di potere.
Rappresentano, assieme a forti interessi industriali e militari, una vera e propria 
posizione culturale conservatrice venata da un forte fondamentalismo religioso, della 
destra cristiana e non solo. Attorno ai nomi di Dick Cheney, Donald Rumsfeld, o degli 
studiosi Robert Kagan, Samuel Huntington, il teorizzatore dello scontro delle civiltà, 
e altri ancora si sono raccolte le correnti millenaristiche con i loro furibondi 
telepredicatori, imbonitori della “morale americana” portatrice di libertà e 
ricchezza. L’”America” investita da una nuova missione nel mondo. Occorre anche un 
nuovo nemico, novello Satana!, dopo la caduta del muro di Berlino e lo sfaldamento 
dell’Unione sovietica. Ed ecco apparire d’incanto all’orizzonte il radicalismo 
politico legato all’islam in un crescendo parossistico di paranoia identitaria.
Uno dei primi effetti della guerra che si fa politica è la sacralizzazione della 
guerra stessa. L’iconografia è quella delle grandi occasioni. Dalla giornata di 
preghiera e digiuno per invocare l’aiuto di Dio nella lotta contro il male, indetta da 
George Bush, a sostegno delle truppe impegnate nei combattimenti ai continui richiami 
ad una visione mistica dell’agire americano legato ai sacri valori del bene assoluto.
E così mentre il Dio romano parla il linguaggio della pace in un ritorno quasi 
catacombale della chiesa, sull’altra sponda dell’Atlantico Dio si veste da pilota con 
le sue bombe e un’idea di salvezza dell’umanità a senso unico sotto le spoglie di un 
marine.
Che fatica, povero Padre!

La conduzione della crisi irachena ha mandato definitivamente in soffitta i grandi 
equilibri e le istituzioni internazionali che hanno governato il novecento. In primis 
l’ONU, completamente scavalcata e ridicolizzata dalla spregiudicata politica 
statunitense. Con l’ONU esce a pezzi un altro dei concetti cardine legato allo stato 
nazione ed è l’idea della sovranità statuale. Sbriciolata sotto l’incalzare della 
religiosità del nuovo dominio che si fa comando imperioso.
Si è detto “è stata la guerra del petrolio”.  Nulla di più riduttivo.
Ora, è evidente, che il controllo dei pozzi iracheni, secondi nella produzione 
mondiale dell’oro nero, servirà a condizionare pesantemente la politica dei prezzi 
dell’OPEC e questo è un risultato di notevole rilevanza ma, isolato dal contesto, non 
spiega l’intervento. Ovviamente tralascio la bella favola del ripristino della 
democrazia, buona per i gonzi di ogni latitudine.
Il fatto è che la guerra non serve più a creare un altro ordine bensì è portatrice di 
un disordine mondiale che diventa elemento costituente. E' nel disordine che il 
comando assume una valenza assoluta. Comando esercitato attraverso l’uso spropositato 
della forza, fatto di “bombe intelligenti”, verso gli angoli più deboli del pianeta, 
di trattati internazionali disattesi e di una democrazia, nel ricco nord, che assume 
sempre più le vesti di una dittatura dell’indifferenza e che tratta gli strati più 
deboli in una logica puramente securitaria. Il militare sopravanza ogni altra istanza.
Riscontro immediato a quanto sopra affermato è l’aumento della popolazione carceraria 
del pianeta e l’utilizzo del sistema penitenziario e della pena non più come “recupero 
sociale”, per quanto discutibile e illusoria sia stata questa teoria, ma bensì come 
puro contenitore dove rinchiudere i reietti delle nostre società. Ministro Castelli 
docet!

I dati del sistema penale statunitense sono impressionanti e l’Europa non è da meno, 
fatte le debite differenze.
Negli States tra il 1985 e il 1995 il numero dei condannati è balzato da 2 a 3 
milioni. Complessivamente la popolazione sottoposta a varie tutele penali sfiora i 5 
milioni contro i 3 milioni di dieci anni prima e meno di 1 milione del 1975. Un 
americano di sesso maschile su 20, un nero su 10 cade così sotto la giurisdizione 
criminale.
Negli stessi anni assistiamo al boom dell’economia penale e il bilancio del ministero 
della giustizia è passato dai 9 miliardi di dollari del 1982 ai 32 miliardi del 1992, 
e questo dinanzi ad un ristagno, se non addirittura ad una regressione, dei dati sulla 
cosiddetta delinquenza (dati tratti da “Simbiosi mortale : neoliberismo e politica 
penale” di Loic Wacquant).
I dati italiani, tanto per dare un’idea di un quadro parziale a livello europeo, non 
sono da meno: 58000 detenuti di cui 20000 tossicodipendenti. Gli stranieri, deboli tra 
i deboli, arrivano ad essere 17500. 
5000 sono gli ammalati di AIDS e 10500 reclusi sono affetti da epatite virale cronica.
Di fronte a questo scenario è fin troppo facile affermare che l’ottimismo è degli 
stolti.
Il sorriso ebete del nostro presidente del Consiglio è la fotografia di un tempo che 
sembra aver smarrito la ragione.


“Che fare?” Cent’anni fa Vladimir Ilich Ulianov, detto Lenin, si poneva l’angosciosa 
domanda nella durezza dell’esilio. Oggi la sua idea di un partito, avanguardia della 
“coscienza proletaria” appare incartapecorita come il suo corpo esposto nell’orribile 
mausoleo della piazza Rossa, sacrificato all’estenuante fatica della ragion di stato, 
implosa ben prima della caduta del muro dell’89.
Un secolo dopo l’interrogativo permane gravato da tutti i suoi fallimenti.
Che fare, dunque?
Intanto, come premessa, si può iniziare con l’affermare che non esistono risposte 
univoche bensì tentativi segnati dalla ricerca, dalla sperimentazione e 
dall’incertezza dove l’approdo (quale poi?) si perde nelle nebbie del cammino,  ed è 
forse un bene questo da valorizzare.  
Viviamo l’epoca della velocità, del consumo rapido degli eventi cancellati da una 
memoria sempre più labile ottenebrata da input sfavillanti. Attraversiamo la 
complessità delle relazioni in un mondo immiserito dove la “capacità di spesa” rende 
cittadini a scapito della qualità dell’incontro. Discutiamo appassionati su internet 
ma a tre ore di volo da Roma l’energia elettrica è un lusso per pochi eletti. Viviamo 
la molteplicità del tempo sociale con attori nuovi ed emergenti e stonata appare la 
riduzione ad un unicum onnicomprensivo delle diversità. Una volta si sarebbe detto 
ricomposizione, di classe ovviamente.
Ma dicevo della complessità.
Nell’inverno appena trascorso milioni di persone da ogni angolo del mondo hanno urlato 
il loro no alla guerra, un no forte e chiaro ad un nuovo conflitto in terra irachena. 
Nel nostro paese la bandiera arcobaleno ha colorato i balconi e le finestre delle case 
rendendo meno grigio il panorama metropolitano. Non è bastato.
La guerra c’è stata, continua ad esserci con il suo carico inevitabile di vittime e le 
bandiere arcobaleno si stingono al sole dell’estate, armonizzandosi con i cicli 
convulsi della città, ridotte, loro malgrado, a mero atto testimoniale. Lo spirito di 
una nuova comunità in nuce viene inglobato nella normalità dell’esistente. 
Il fallimento del movimento contro la guerra segna un ulteriore passaggio e consegna 
un cahier dei riflessioni alle quali è impossibile sottrarsi, almeno per coloro che 
non amano i ragionamenti di superficie né si fanno ammaliare dai numeri, anche se 
questi hanno la loro importanza.
Proverò a segnalarne alcune, senza la pretesa dell’esaustività, con la consapevolezza 
che sia necessario uscire da un piano puramente etico e testimoniale dell’iniziativa 
politica.
La recente attività bellica scatenata fra il Tigri e l’Eufrate dall’intervento 
anglo-statunitense ha ridotto a brandelli, come ho già detto, istituzioni storiche 
quali l’ONU ma ha pure scompaginato categorie fondanti del nostro equilibrio sociale: 
la democrazia risulta seppellita dall’unilateralismo della nuova dottrina globale. 
L’avversità dell’opinione pubblica mondiale non ha bloccato al suolo i bombardieri né 
li fermerà in futuro.
Perché uomini politici “liberamente eletti” (le virgolette sono d’obbligo!) risultano 
così insensibili al richiamo di una vasta platea di elettori o futuri tali?
Certo, il richiamo dei “poteri forti”, oltre ad essere una garanzia di prossime 
rielezioni, è un canto di sirena al quale è difficile resistere. Non ci sono legacci 
sufficientemente robusti con i quali immobilizzarsi anche perché la quasi totalità del 
ceto politico dominante è espressione diretta di quegli stessi poteri che ormai 
controllano i destini del pianeta. Un ceto politico impregnato da un pensiero 
criminale votato al massimo profitto dell’esistente e privo di qualsiasi interesse sul 
futuro dell’umanità che non sia la sopravvivenza del proprio clan di riferimento. 
Tutto vero. Ma basta questo a spiegare il solco che sempre più divide il sentire 
comune sociale riducendo gli attori in apatici spettatori? O come dare ragione, in 
termini culturali, del fatto che l’ideazione dei CPT sia stato il frutto di una legge 
varata da un governo del centrosinistra?
La vita ridotta a merce, certo, ma sarà bene che un pensiero critico torni ad 
interrogarsi sugli attuali rapporti di produzione e sulle modifiche del mercato del 
lavoro (legge Biagi) per capire ed interpretare le devastazioni della nostra 
quotidianità. Una discussione a tutto campo che investa pure il rapporto tra l’attuale 
forma politica e i movimenti. Forma della politica messa in crisi dalla pratica di 
migliaia di uomini e donne, inadeguata e stantia ma che torna a prendersi la sua 
rivincita nelle “fasi di stanca” soffocando le istanze di liberazione.


“Sto sempre a rincorrere il tempo che non c’è, organizzo anche i secondi” afferma 
un’operaia di Melfi in un’intervista/ricerca patrocinata dalla provincia di Potenza, 
parlando dei disagi indotti dal lavoro notturno (Manifesto 6/8/2002).
Sempre sulle pagine del quotidiano comunista del 1° agosto in un fondo a cura di 
Luciano Gallino trovo dati interessanti sul piano industriale del gruppo Fiat. In 
sintesi: “…è prevista in questo anno la produzione di 1.900.000 autoveicoli nel mondo 
e più o meno lo stesso quantitativo nel 2004. Un po’ più della metà dovrebbe venire 
prodotta in Italia. Parliamo dunque di 1.000.000 di veicoli. Ora la capacità 
produttiva combinata degli stabilimenti di Mirafiori, Melfi, Termoli, Pomigliano 
d’Arco, Cassino, Termini Imerese è prossima ai 2.000.000 di unità… la capacità di 
produzione degli stabilimenti nazionali eccede in totale di alcune centinaia di 
migliaia di unità, fatte salve le oscillazioni del mercato dell’auto. Ne segue una 
domanda nuda e cruda: quali altri stabilimenti italiani potrebbero seguire tra un anno 
o due, o tre, la sorte di Arese?”
Due questioni risaltano: il tempo della vita inglobato nei ritmi della produzione, un 
tempo della riproduzione che diventa ipso facto produttivo, dal recupero delle energie 
necessarie per poter tornare in “linea”, alla cura dei figli possibile spesso grazie 
al meccanismo di solidarietà parentale ecc. 
La seconda questione investe l’idea stessa dello sviluppo incentrata sull’auto. Una 
crisi irreversibile destinata ad acuirsi nel tempo: ovviamente, questo non vuol dire 
che non si produrranno più veicoli ma che si è esaurita la centralità dell’auto nel 
ciclo produttivo. 
Come rapportarsi a questo quadro tendenziale superando la mera resistenza sindacale? 
E’ ben strano, nonostante la moltitudine dei soggetti lavorativi presenti nel 
movimento la questione lavoro, o per meglio dire non lavoro, fatica a trovare 
cittadinanza relegata negli angusti spazi dello “specialismo” o prigioniera di logiche 
puramente ideologiche.  Il lavoro, concettualmente parlando, appare come una sorta di 
maledizione divina alla quale è impossibile sottrarsi.
La recente iniziativa referendaria sull’estensione dell’articolo 18, se pur legittima, 
non è uscita dal binario della cultura lavorista fallendo nel coinvolgimento delle 
nuove figure produttive che non si sono sentite rappresentate nello scontro, a parte 
alcuni settori più sensibili e politicizzati. In questo caso il ruolo dei social 
forum, o quel che ne rimane, è stato di pura acquiescenza, non certo di stimolo 
politico. Eppure l’occasione poteva essere propizia per ri/lanciare un’idea di reddito 
di cittadinanza che desse gambe al confronto e a future iniziative. Il risultato, 
probabilmente, non sarebbe stato diverso ma avrebbe aiutato ad uscire da un’idea di 
pura resistenza.
Rimane un fatto: dieci milioni di voti hanno segnato comunque una grave sconfitta i 
cui effetti misureremo ancora di più nei mesi a venire. Negarlo, consolandosi 
nell’esercizio numerico, è puro pour parler militante al quale non sono interessato.


Ci sono espressioni che in determinate fasi storiche perdono la loro positività pur 
avendola avuta nel passato. Resistere è una parola che cancellerei dai dizionari. Lo 
so, è impopolare ma oggi è un concetto intorno al quale si ossifica il pensiero e 
l’agire politico. A cosa dobbiamo resistere? Certo dobbiamo contrastare una 
spoliazione materiale e spirituale dai contorni devastanti ma il semplice resistere è 
limitativo rispetto alle potenzialità dei nostri desideri. Non ci si può barricare 
attorno alla difesa dell’esistente, di un welfare state ormai svuotato dalle 
modificazioni del tessuto produttivo, welfare, peraltro che abbiamo contestato nelle 
lotte degli anni ’70 (do you rimember?), bensì è vitale assumere altre prospettive, 
altre dimensioni da esplorare sotto il segno della trasformazione. 
Trasformare/trasformandoci perché il cambiamento passa “dentro di noi” nella 
costruzione di relazioni sociali non mercificate. 
La politica non può più essere interpretata come elemento sovrastrutturale, con le sue 
categorie di separazione: il potere, la militanza, l’amico e il nemico ecc., ma deve 
farsi corpo unico con la bios dell’uomo. La struttura della politica è la vita stessa, 
qui ed ora, ed è questa una delle istanze più stimolanti prodotta dal movimento 
globale. Una concezione orizzontale dei rapporti, aperti alle differenze, vissute come 
ricchezze al di là delle appartenenze. 
Per la verità negli ultimi tempi sono tornati a levarsi alti i canti antichi delle 
identità di schieramento e lo stato generale dei social forum parla anche di questo. 
Non è un buon segnale, è bene saperlo. 

La situazione sociale conosce una deriva di grande pericolosità: siamo entrati in una 
fase di recessione economica, negata per troppo tempo e per tutta risposta i progetti 
sulla “sicurezza europea” narrano di treni blindati carichi di migranti per 
sospingerli fuori della fortezza dell’esiguo benessere. “Programma Nettuno” lo 
chiamano. Non credo che il dio del mare apprezzerebbe un simile accostamento. Simbolo 
di potenza e di libertà mal sopporterebbe l’uso improprio della sua immagine al 
servizio di un’ipotesi nazista ed illiberale. E così, i vagoni piombati riveduti e 
corretti, si sa siamo nell’epoca della comunicazione!, tornano a solcare il vecchio 
continente, cosa dice il movimento globale?
Dopo le grandi mobilitazioni di inizio anno un’improvvisa afasia sembra averlo 
colpito. Balbettii incerti e una mancanza di progettualità di largo respiro hanno 
caratterizzato questi mesi, salvo conoscere improvvise fiammate rituali in occasione 
dei soliti appuntamenti internazionali.
Alcune tracce per una possibile riflessione.
1. Questo movimento sarà planetario o non sarà.
Non vuole essere una delle solite affermazioni roboanti ma un’idea attorno alla quale 
lavorare. Uno stimolo guida da non perdere di vista. L’Europa può rivelarsi 
un’illusione, un cortile angusto per le aspirazioni che hanno attraversato le strade 
di molte città del pianeta. 
La prospettiva di un’Europa dal basso (cosa vuol dire poi?) da contrapporre allo 
strapotere USA è fuorviante e l’appello del 31 maggio di Jurgen Habermas in favore di 
una forte costituzione europea non esce da un linguaggio istituzionale ed è limitante 
per l'azione dei movimenti.
Dalle lotte dei semterra brasiliani, al Chapas degli zapatisti. Dalle manifestazioni 
newyorkesi contro la guerra alle iniziative nel deserto australiano nei confronti dei 
cosiddetti centri di accoglienza per immigrati passando per lo smontaggio del CPT di 
via Mattei perdendosi per le vie di Genova, questo dovrebbe essere il cammino.
2.  L’anima delle nostre città giace prigioniera in gabbie monocellulari che chiamiamo 
     
      case. Territori senza cuore in preda a pulsioni individualistiche prive ormai di 
una   
      narrazione polifonica comune. Rapporto globale/locale lo definiscono ed è 
proprio    
      sul locale che il movimento stenta a muoversi in maniera innovativa. 
      Una premessa: in un contesto globalizzato il locale è il prodotto del processo 
di 
      globalizzazione stessa. Non esiste un’azione globale priva di azione locale e la 
      storia dei movimenti ne è una controprova… Eppure? Eppure si stenta a far 
      crescere istanze di giustizia sociale nel proprio territorio e la fotografia del 
social 
      forum rispecchia questa difficoltà.
      Occorre, forse, attraverso la pratica creare un’altra costituzione materiale 
      dell’esistente: partire dai bisogni, si sarebbe detto una volta, e dalla libertà 
di 
      movimento oltre ogni confine, fisico e mentale.
Occorre rapportarsi a un’idea di spazio pubblico che elabori la differenza non come    
 mera sommatoria di identità ma come capacità di visualizzare i soggetti che hanno a 
che fare con il cambiamento. Un processo di liberazione in divenire che nulla ha a che 
spartire con la granitica certezza della soggettività (un film già visto e non degno 
di particolare replica). 
      Occorre sottrarsi alle logiche imperanti organizzando l’esodo dal dominio 
      capitalistico, svuotando la sua forza dirompente.
Occorre, a volte, saper “non fare” piuttosto che “fare” a qualsiasi costo  consapevoli 
dell’effimero passaggio delle nostre esistenze, condannati come siamo a vivere la 
nostra vita e la nostra morte.
Il resto è solo miseria del presente. Nulla più.    
                         
                                                                      Odisseo

Agosto 2003

 

 
    



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