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CASUS  BELLI: LA GUERRA IN IRAQ E LE SUE IMPLICAZIONI ECONOMICHE E GEOPOLITICHE

I miei antichi concittadini denominavano con “casus belli” il motivo per cui una guerra viene dichiarata. Gente pratica, i romani, quelli di allora, beninteso, avevano moltissimi motivi per dichiarare guerra. Uno era il principale: essi erano militarmente i più forti. E però come sempre il più forte fa, essi amministravano la guerra con la discrezione che competeva ad un impero. Mai e poi mai avrebbero fatto discendere la guerra da una superiorità razziale e religiosa. La razza non era concetto di gran moda fra i figli dei centurioni, usi a copulare in molti dei paesi occupati. La religione poi, per i romani, era legata al “genius loci”. Occupato un paese essi , solerti,  si   preoccupavano di quale fosse il Dio del luogo e prontamente gli erigevano un altare e lo includevano nel Pantheon. L’unico paese in cui questa operazione non riuscì fu Israele, ma, come dir e, la colpa era del Dio locale, che si pretendeva unico. Non a caso Israele fu l’unico paese sottoposto a deportazione di massa e pulizia etnica. Concetti che normalmente non erano parte dello strumentario romano in tema di imperialismo.

Nel caso dell’Iraq, qual è il “casus belli”?

La stampa mondiale, prodiga di articoli, ma altrettanto scarsa in notizie  ha provato a costruire diversi  “casi”, cioè motivi, per cui la guerra è giusta.

A ben vedere però nessuno regge, non dico a una critica serrata, ma neppure a una disanima superficiale. E’ vero la comunità internazionale non è mai stata prodiga di motivazioni. Nel caso della Serbia, ad esempio, solo la presenza al governo italiano della Sinistra  (Do you remember Mr D’Alema?” un personaggio che ai tempi delle Botteghe Oscure  era indistinguibile da un membro di seconda mano di una delegazione ufficiale del Partito Comunista Cecoslovacco) convinse il Paese ed il Presidente della Repubblica ad obliare l’art 11. della Costituzione. Negli USA Maddaleine Albright, rischiò l’ulcera, essendo lei caratterialmente dispeptica, per convincere il suo paese, indeciso se Sarajevo fosse sulla Est Coast oppure sulle West, a proclamare una guerra. Quanto sarà costato a Maddaleine  finanziare i fondamentalisti islamici de ll’UCK proprio a lei giudea nicodemista? Gli altri Europei si accodarono per motivi oscuri. Avevano a che fare con raffinatissimi calcoli geopolitici, ma il risultato fu che i bombardamenti si concentrarono su Pristina, distruggendo il “Corridoio”più caro agli Europei. Della serie palle e martello.[1]

Assolutamente favorevoli alla guerra era la lobby umanitaria, “noveaux philosophes”, Verdi Tedeschi e  pure Sofri Adriano, che invece di pensare ai guai suoi ne provoca di altri e ben più gravi. Pragmatico l’ex leader della Germania unita, il Cancelliere Kohl, era contrario. Pagò il suo dissenso con la tangentopoli germanica.

Lo schieramento progressista Clinton-Blair-Cohen-Bendit-Sofri-Gluksman (si licet de minima curant) lascia  il posto nella guerra Irachena a una compagine petrolifera repubblicana e di destra ben più organica. Restano Blair e Sofri, come addetti stampa.

Ma le motivazioni scarseggiano.

·        Non si può accusare Saddam di filoterrorismo: l’unico “terrorista vero” residente in Irakera  Abu Nidal, compianto membro del consiglio d’amministrazione della BCCI la banca finanziatrice dell’atomica pakistana e di chi sa quali altri misfatti (si sa…si sa..), strappato all’affetto dei suoi cari dai mitra dei servizi segreti iracheni. Non so perché, ma ho il fondato timore che la CIA, lo abbia annoverato tra le perdite…Comunque gli unici campi di AL Qaida in Irak stanno nelle zone Kurde, teoricamente alleate agli USA e membri dell’opposizione a Saddam.

·        Non si può accusare Saddam di fondamentalismo religioso. L’unico fondamento che venera è il suo dispoticissimo potere.

·        Le armi di distruzioni di massa ci sono. Ma forte è il sospetto che le abbiano fornite gli Stati Occidentali e – ahimè – che le abbiamo finanziate proprio noi via BNL-Atlanta. L’atomica irachena è un sogno tramontato sotto le bombe israeliane. Certo, in futuro, Saddam potrebbe averne una, come tutti d’altronde. Ma allora perché non preoccuparsi subito di disarmare Pakistan e Israele, le uniche due potenze nucleari dell’area?

 

Esaurite queste motivazioni ufficiali veniamo a quelle ideologiche.

·        Adriano Sofri dice che contro il male la guerra è lecita. E porta l’esempio della guerra ad Hitler.  Debolissimo paragone. L’unico somiglianza che mi viene in mente fra il Rais e il Fhurer è l’origine dei finanziamenti che li hanno portati al potere o comunque soccorsi in momenti difficili. Nel caso di Hitler parliamo del finanziamento in pool del 1932, organizzato da Schroeder, con la benedizione di Montagu Norman, dissennato governatore della Bank of England, e fra gli altri con i contributi onerosi dell’antisemita J.P.Morgan e del semita Max Warburg. La geopolitica di allora pensava utile rafforzare Hitler contro le mire  espansioniste di una Francia che aveva troppo oro per essere gradita al guardiano della Sterlina all’Impero Brita nnico,  e alle venali oligarchie di Wall Street. E poi dare una lezione ai comunisti,  non fa mai male. Ieri come oggi la geopolitica crea mostri.

·        “Il Foglio” e i suoi redattori (ex di tutto), hanno una tesi più brutale: la democrazia ed il libero mercato si può, e si deve, esportare sulle canne dei fucili. Che questo sia detto, fra gli altri da antichi estimatori di Pol Pot e di Khomeini, compromette già all’inizio la forza all’argomentazione e invita allo sganascio.  L’unico esempio storico recente, escluso l’impero romano, che comunque esportava il diritto e non la democrazia, è  costituito da Napoleone Bonaparte. Sul Bonaparte aprirei una grande discussione storico militare. Le armate francesi crearono le Repubbliche cisalpine e cispadane, inventarono il tricolore italiano, portarono ovunque il diritto amministrativo francese, terrorizzarono i “codini” di tutta europa e fecero sussultare pure l’Impero Britannico. Ma l’idea imperiale di Bonaparte era comunque francocentrica e autocratica,  le sue derivazioni politiche dalla Grande rivoluzione sempre più flebili. Fino a scomparire del tutto nella proclamazione dell’Impero. I risultati politici finali poi furono disastrosi: dal 1815 in poi le idee di un nuovo ordine mondiale democratico dovranno sottoporsi ai nazionalismi, ai risorgimenti, e troveranno infine un eco solo nel pensiero rivoluzionario socialista ed anarchico e nella Comune del 1870. E d’altra parte tutto si può dire della “crociata afghana”, tranne che ha riportato la democrazia nell’area. Personaggi come il Generale Dostum e il Presidente Uzbeko Karimov  sono più degni di un museo lombrosiano  di un manicomio criminale che degli annali della democrazia. Rispondono solerti, che questo  è solo l’inizio. Guerra infinita, appunto. 

Veniamo dunque a più serie motivazioni. Che si possono così schematizzare:

·        Il controllo dei pozzi petroliferi. (Dottrina “Cheney”)

·        La teoria delle alleanze instabili finalizzate al controllo di aree strategiche. (Paul Wolfowitz)

Le due teorie non sono contraddittorie, anzi. Entrambe rappresentano la “Logica dell’Impero”. In una sono più forti gli argomenti di geopolitica, nell’altra quelli “energetici”.

Va detto che gli USA non hanno mai fatto una guerra per il Petrolio. L’unica guerra a fini petroliferi può essere considerata il  “bening neglect” adottato dagli Inglesi negli anni ’30 nella guerra fra Haschemiti e Sauditi, da cui la dinastia Saud sostituì gli Hussein come punto di riferimento del mondo arabo. Quella sciagurata guerra in cui il colonnello Lawrence avrebbe voluto combattere con gli Hussein, suoi antichi alleati (e non solo) nella rivolta del deserto, ma l’efficace Servizio di Sua Maestà Britannica glielo impedì. Poco dopo l’aviere Ross (Lawrence) trovo la morte in un incidente di motocicletta. Al funerale per l’aviere Ross partecipò, fra l’incredulità generale, J.B.Shaw, e molti altri.

Ma tornando ad oggi vediamo i conti petroliferi.

Nel 1980 gli USA importavano dai paesi arabi OPEC il 47% del totale delle importazioni di petrolio. Oggi,  2002, ne importano il 24,8%.

La dipendenza dal petrolio mediorientale degli USA è dunque diminuita. Nuovi partner sono apparsi sul mercato. La Russia produce 10 milioni di barili di petrolio giorno e ne esporta fra i 4. e i 5 milioni. Il Venezuela da solo copre il 12% dell’import americano (e questo spiega il malanimo nei confronti di Chavez.). Poi vi è il petrolio del mare del Nord, soprattutto norvegese, l’Angola e tanti altri partner diversi dai mediorientali.

La produzione dell’Irak è oggi intorno ai 3-3,5 milioni di barili/giorno. Quasi interamente dedicati all’export, parte nel programma “Oil for Foods”, parte, “illegalmente” attraverso la Siria e in misura minore la Giordania.

Senza embargo e con nuovi investimenti l’Irak potrebbe attestarsi fra i 4 e i 5 milioni di barili giorno.

Non è poco.  Ma non è nemmeno tanto da giustificare una Guerra, neppure economicamente, almeno in termini di cash-flow.

William D. Nordhaus, affermato economista e autore di un libro di testo giunto alla 17ma edizione, prova a fare i conti di quanto costerebbe un'avventura militare americana in Iraq. La guerra del golfo del 1990-1991 appare una bazzecola, per le casse americane, in quanto gran parte di un conto di 80 miliardi di dollari fu girato agli alleati, soprattutto all’Arabia Saudita. Con tutta la cautela e le riserve del caso, Nordhaus stima a 121 miliardi i costi di un'eventuale vittoria lampo e a 1600 miliardi i costi di un molto più probabile conflitto protratto: la differenza sono spiegati dai “costi di occupazione” per dieci anni.  A differenza del 1991 infatti questa volta l’America non potrebbe ribaltare i costi della guerra: le maggiori entrate della rendita petrolifera servirebbero per la ricostruzione dell’Irak, mentre i costi di occupazione sono stimati  in 500 miliardi di dollari totalmente a carico degli USA. La American Academy of Arts and Sciences invece ha una stima maggiore: 2 mila miliardi di dollari.

In realtà l’attacco all’Irak non si spiega con il petrolio.

Neanche guardando al futuro. Il petrolio del futuro sta nell’Asia Centrale, per ora in Kazakistan, nei giacimenti del Caspio. Probabilmente in Cina nello Xin Xiang.

Ma il petrolio dell’Asia Centrale per ora è solo una opzione strategica a cinque/dieci anni. Occorrerà infatti costruire gli Oleodotti. E per non ingolfare il Bosforo, occorrerà portarlo via Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan, fino al golfo persico. Il vecchio progetto Unocal (USA) e Delta Oil (sauditi) che probabilmente ha influito sulla guerra afghana. L’attuale presidente Kharzai è infatti un ex consulente Unocal.

Il petrolio irakeno ha invece una funzione tattica. Toglie potere ai Saud. Una valvola di 3-5 milioni di barili giorno fuori dal controllo OPEC, impedisce ad Arabia Saudita,  Emirati del Golfo e Iran di stabilire i prezzi del petrolio.  Un rubinetto di petrolio con funzioni di arbitro dei prezzi del mercato vale molto solo se si assume che i più di 10 milioni di barili giorni dell’Arabia Saudita e i 5 dell’Iran siano a rischio. Ma è credibile che il più fedele alleato degli USA, i Saud, siano la mano che ha armato il peggior attacco agli Stati Uniti della Storia?

Da un po’ di tempo  è iniziata in America una campagna contro i sauditi. Non sono solo gli avvocati delle vittime di Ground Zero a indicare nei sauditi i  responsabili dell’11 settembre. Anche il Council On Foreign Relations in alcune sue recenti pubblicazioni, soprattutto in “Terrorist financing”, un rapporto di una task force “indipendente”, indica nella rete di solidarietà religiosa saudita uno dei principali sponsor finanziari di Osama bin Laden.

Qui non importa il fatto, sicuramente vero, importa invece il “timing” della denuncia. Anche un idiota con qualche esperienza mediorientale  avrebbe all’indomani dell’11 settembre facilmente individuato nei sauditi, se non nel Re, certo nella complessa famiglia, il vero finanziario sponsor di Osama, altro che i quei caprai montanari dei “talebani”!

Ma perché ora attaccare i Saud, attraverso l’Irak ? Perché la successione è in corso e ancora incerta? Perché incominciano a ritirare i soldi investiti negli USA non solo dalla Borsa. Perché il totale degli investimenti sauditi in America ammontano a circa 1.200 miliardi di dollari, che se ritirati tutti insieme possono provocare una crisi finanziaria di rara bellezza.  Perché i Saud controllano una delle più grandi banche americane, Citygroup?

Sono Tesi non priva di realtà, come ha sottolineato l’ultimo numero di “Limes”. Tesi che si sposa con i sogni della corona britannica di ridare l’Irak agli hascemiti del nuovo Re Abdullah.

Tesi che può giustificare perché l’Irak, una volta deciso che bisogna fare una guerra sia il posto giusto. Ma non può giustificare il perché della Guerra.

Come in Afghanistan, d’altronde, la geopolitica spiega solo perché lì e non altrove. Non spiega perché per raggiungere quegli obiettivi la via scelta sia  la Guerra.

La Guerra è la continuazione della Politica con altri mezzi, ma occorre aver esaurito tutte le carte politiche perché sia legittimata. Qui invece le carte politiche non sono state neanche tentate. Anzi è stato escluso a priori che l’Afghanistan e l’Irak potessero essere affrontati con un combinato disposto di politica ed intelligence. Insomma la strategia del Golpe, che ha funzionato in Guatemala, in Cile, in Argentina, in Nicaragua, in Indonesia e che ora prosegue in Venezuela  non è stata neanche presa in considerazione.

Anche a rischio di uno scontro con l’Europa e l’Onu, la scelta della guerra dell’Amministrazione Bush sembra irrevocabile. Il governo dei petrolieri americani sembra compatto. Ma poi si scopre che i petrolieri Inglesi e Americani, per non parlare dei Francesi e degli Italiani,  di questa guerra, e degli effetti destabilizzanti sull’area (rischio dell’allargamento del conflitto all’Iran, peggioramento al di là dell’ipotizzabile del conflitto arabo-israeliano) e  sul prezzo del petrolio hanno paura.

E allora qual è la forza potente che spinge verso il peggiore dei Mali: una guerra che non esclude l’opzione nucleare?

E se avesse avuto ragione Arbatov, fedele e raffinato servitore di tutti gli autocrati russi, da Stalin a Eltsin, nel sostenere che la caduta del comunismo è stata per gli USA il colpo peggiore dalla fine della II° guerra mondiale, privandoli di quel nemico storico che dal 1946 in poi ha alimentato la guerra fredda?

E se ora dai meandri di un cervello malato, come quello di Huntington, si fosse diffusa come un cancro l’idea di sostituire al nemico comunista il nemico islamista? Chi ha permesso agli eretici whabbiti di impestare tutto l’Islam, dalla Cecenia, all’Algeria, dall’Indonesia allo Yemen, alla Somalia, alla Nigeria?

Che bello lo scontro di Civiltà! Che bello additare in un miliardario saudita il nuovo Robin Hood dei poveri e dei pezzenti! Un ex agente della CIA che guida le armate del III° mondo contro il sacro suolo degli USA, che punisce col sangue e col fuoco l’ingordigia americana. Un nemico ideale, abbastanza crudele e ramificato da durare, ma che ovviamente non può mai vincere! E come è facile accusare i pacifisti di essere alleati del Male!

E  ci cascano tutti da Chomsky ai terzomondismi nostrani!

Guardiamo allora la questione da un altro punto di vista

La crisi americana  e mondiale non sembra fermarsi, e se si ferma e solo per ristagnare. Gli Usa hanno un costo del denaro a livelli “giapponesi”. E ancora l’economia non riparte. L’Europa pure è ferma. La Germania e l’Italia fra un po’ spingeranno indietro tutta l’economia europea. La crisi della banche tedesche si trascina fra smentite e iniezioni di liquidità. Se crolla la Fiat saltano anche le prime quattro banche italiane. Il “buco” delle banche giapponesi si misura in trilioni di yen.

E allora?

Allora la vecchia politica della spesa pubblica militare sembra, come ai tempi della guerra di Corea, come ai tempi del Vietnam, come durante le guerre stellari di Reagan e la guerra del Golfo di Bush I°, fornire una via d’uscita.

Ed ecco alcune cifre banali. Alcune maledette correlazioni che stanno alla base dell’economia di guerra.

In dollari correnti le spese per la difesa negli Stati Uniti sono 451,3 miliardi di dollari nel III° trimestre 2002. Il 4,3% di un PIL americano che ammonta a 10.376 miliardi di dollari.  E’ molto, ma ancora poco per rilanciare l’economia. La teoria del moltiplicatore keynesiano ci dice che su 1 dollaro speso in “militare” ritornano 2,5 dollari sul PIL.

E’ molto in termini percentuali. E’ ancora poco in termini assoluti.

Nel 2000, anno di “boom economico” la spesa militare contribuiva alla crescita del PIL americano per lo 0,0%  Nel III trimestre del 2002, anno ancora di crisi, la spesa militare incide per lo 0,30% sulla crescita del PIL. Non è poco. Ma non basta ancora.

E allora?

E allora Guerra! 

Guerra per mantenere il nostro stile di vita, guerra per continuare a consumare l’80% delle risorse in solo 7 paesi del mondo, guerra per le nostre belle automobili, guerra per la tv a colori, guerra per salvare le nostre belle banche, guerra per continuare ad ingrassare, mentre altrove c’è il problema della fame, guerra per le nostre malattie cardiovascolari e per i by pass, guerra per poter continuare a leggere su tutti i giornali che questo è il miglior mondo possibile nel migliore dei mondi possibili. Guerra per non finire come l’Argentina.

Guerra! E maledetto sia chi non ci va! Tanto le perdite fra i militari sono solo il 10% delle perdite totali. Gli altri sono civili.

Guerra! Guerra! Guerra!

(Segue il coro dell’Aida seguito dall’inno nazionale. Il Presidente Ciampi si commuove.)

P.S   Mi si dice che il sostegno della Confindustria  italiana alla Guerra  sarebbe più convinto se a fronte di una nostra partecipazione ci venisse garantito il 30% della privatizzazione Gazprom Russia e l’oleodotto con la Libia. Che dice Presidente, si può fare?…….

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Su questo tema vedi Sbancor: “Diaro di Guerra. Per una critica della guerra umanitaria”. DeriveApprodi 1999 Roma.



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