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Le armate dei guerrieri just in time
STEFANO SENSI


Le armate dei guerrieri just in time La volontà imperiale degli Stati uniti di difendere un modello di sviluppo e la crescita di un movimento globale di protesta contro l'annunciata guerra contro l'Iraq. Parla lo storico e urbanista statunitense Mike Davis Nel Golfo saranno impiegati nuovi sistemi di armamento e vedremo all'opera piccole e autonome unità di combattimento dotate di sofisticati gadget elettronici per elaborare in tempo reale il flusso continuo di informazioni e così modificare gli obiettivi militari STEFANO SENSI La galassia americana di fronte alla vigilia di una guerra che rappresenta uno shift epocale sia per quanto riguarda le stategie e le tecnologie militari che verranno impiegate, ma anche per il passaggio senza indugi ad una politica «imperiale» da parte del presidente George W. Bush dopo il periodo soft rappresentanto da Bill Clinton. Allo stesso tempo gli Usa sono il paese in cui si manifesta un movimento di «resistenza» che vive una fase di prodigioso successo. Cosa si agita in queste due «Americhe» apparentemente sempre più distanti a causa della «guerra al terrorismo»? Ne abbiamo parlato a Los Angeles con Mike Davis, lo storico e urbanista noto per alcuni saggi dedicati allo sviluppo metropolitano - La città di quarzo (manifestolibri) e Geografia della paura (Feltrinelli), dedicati entrambi a Los Angeles, e il non ancora tradotto Dead Cities -, nonché di studi sulle politiche repressive dell'immigrazione da parte dell'establishment - I latinos alla conquista dell'America (Feltrinelli) - o di grandi affreschi sulla nascita delle politiche imperialistiche - Olocausti vittoriani (Feltrinelli). Ed è quindi ovvio che il punto di partenza dell'intervista non possono che essere le manifestazioni contro la guerra del 15 febbraio.

Cosa pensi di questo movimento pacifista?

Sono affascinato dalla potenza espressa da questo movimento.
Non
mi riferisco solo alle dimensioni raggiunte ma anche, e soprattutto,
all'eterogeneità e diversità che esprime. Impressionante é la sua
diffusione capillare. Sono appena tornato dall'Arizona dove ho
assistito ad incredibili manifestazioni in piccoli centri sperduti. A
Flagstaff, per esempio, ci sono stati, sabato 15 Febbraio, migliaia
di
dimostranti in piazza, una cifra che considerato il numero totale di
abitanti di questa piccola città ne fa probabilmente uno dei posti a
più alto tasso di «resistenti» di tutto il pianeta. Persino qui a Los
Angeles, nei sobborghi opulenti di Orange County, capitale
mondiale del conservatorismo repubblicano e uno posti più
conformisti di tutti gli Stati uniti, assistiamo a forme di dissenso
diffuso che sorgono nei posti più inaspettati. Mi riferisco, ad
esempio, alle peace walks all'interno dei centri commerciali che
mettono magicamente insieme centinaia di attivisti ed incuriositi
consumatori. Un fatto ampiamente ignorato dai media é la
risonanza delle tematiche pacifiste all'interno del mondo sindacale.
La maggior parte dei quadri, e questo vale anche per i sindacati
che
contano milioni di iscritti, si è infatti schierata decisamente contro la
guerra.

C'é poi la dimensione globale, transnazionale, di questo
movimento.
Stiamo assistendo all'affermarsi del più grosso movimento globale
di protesta mai esistito nella storia dell'umanità.

Il «New York Time» ha scritto che dal 15 febbraio ci sono due
superpotenze nel mondo: gli Usa e l'opinione pubblica mondiale.
Sei
d'accordo con questa analisi?

Per quanto io stesso, come ho detto, sia estasiato dalla dimensione
di questo movimento, penso che l'analisi del New York Times ne
sopravvaluti il reale peso. Fino a che non riusciremo ad inceppare
la
macchina di guerra, la seconda superpotenza di cui parla il Times
ha i piedi d'argilla. Certo, manifestazioni come quelle del 15 hanno
un incredibile effetto nel catalizzare la scesa in campo di un
sempre
maggior numero di forze, ma se non si passa, come mi sembra stia
succedendo in Europa, ad una fase di intensa attività di
disobbedienza civile di massa, siamo destinati ad incidere solo in
maniera marginale. Ma è in Europa che si sta giocando una delle
partite più importanti. Se il movimento della pace riuscisse a far
entrare in crisi uno dei tre governi - quello inglese, l'italiano o lo
spagnolo - che sostengono Bush allora sì che si scatenerebbe un
effetto domino con implicazioni importantissime. In Inghilterra mi
sembra che i presupposti ci siano, visto l'opposizione sempre più
articolata e imponente che sta crescendo contro Blair, persino
all'interno del Labour party . Il movimento italiano sta mostrando
un'incredibile creatività e determinazione con la campagna di
boicottaggio dei «treni della morte» e chissà ...

E' una situazione fluida e dagli esiti imprevedibili. Forse non
saremo
in grado di evitare l'inizio della guerra, ma ne possiamo però
condizionare la durata. Bush e Rumsfeld sperano ad esempio che
quella contro l'Iraq sarà una guerra lampo. Nella loro lucida follia, si
illudono che in pochi giorni sconfiggeranno l'esercito iracheno e che
le truppe americane saranno accolte a braccia aperte dai festosi
iracheni liberati. Sperano cioè in un «miracolo» che possa mettere
a
tacere il dissenso rispetto alle loro politiche espansioniste. Quello
che è ragionevole supporre è invece che chi ha manifestato contro
la guerra in questo periodo ritorni a casa così facilmente.

Parlando delle nuove tecnologie che verranno impiegate nella
guerra, hai recentemente parlato di una vera rivoluzione in corso
....

Non sono io a dirlo. Sono gli strateghi del Pentagono che
affermano
che la prima guerra del Golfo, nonostante l'incredibile campagna
mediatica sui bombardamenti «chirurgici», non è stata la prima
guerra «moderna», quanto l'ultima guerra combattuta secondo uno
schema tradizionale. Curiosando fra quello che le think-tanks
militari
hanno elaborato negli ultimi tempi ci si accorge che tutti gli anni `90
sono stati attraversati da una fondamentale ridefinizione di tattiche
e
strategie che ha portato a quella che Rumsfeld ha, appunto,
definito
«la rivoluzione». La guerra in Iraq dovrebbe rappresentare il banco
di prova di questo cambio di paradigma. La novità non viene
solamente dall'ulteriore salto tecnologico delle armi che saranno
impiegate - bombe che, grazie alla tecnologia laser, sono in grado
di
colpire con precisione millimetrica, l'utilizzo di micronde e campi
elettromagnetici per mettere ko comunicazioni o, infine, l'uso di
aerei telecomandati. No, il cambiamento viene da un mutamento di
paradigma che sposta l'organizzazione militare verso un modello a
rete, un modo di fare la guerra che viene definito network centric
warfare. Si applicano cioè alla macchina bellica i paradigmi che
sono alla base dell'economia postfordista.

Infatti, il modello di riferimento, proposto dalle teste d'uovo del
Pentagono è proprio quello leggero e «minimalista» che governa
un
colosso della distribuzione americana come la catena Wal-Mart. Si
importano cioè quelle strategie, il just in time ad esempio, che
regolano l'odierna produzione nella new economy. Ci si avvale
infatti
di quei principi di sincronizzazione, in real-time, dei processi
produttivi e distributivi che fanno si che l'operatore di cassa, con la
semplice lettura ottica del codice a barra di una merce qualsiasi,
intervenga in maniera istantanea su produzione e stoccaggio
dell'articolo venduto. Tradotto in termini militari, i rivoluzionari del
Pentagono pensano di creare unità di combattimento leggere, ri-
assemblate in tempo reale, che somministrino potenza letale
commisurata a quelle che sono le immediate contingenze del
campo di battaglia. Tale modello é reso oggi possibile grazie
all'immensa potenza in termini di capacità di flusso di informazione
delle reti moderne, coniugata con un esteso uso di tecnologie di
videosorveglianza e monitoraggio tramite l'uso di una nuova
generazione di gadgets elettronici come sensori miniaturizzati e
minuscole videocamere robotizzate.

Ma il modello postfordista fornisce anche lo schema organizzativo
dei processi decisionali. Nel nuovo paradigma leggero, le unità di
combattimento sarebbero organizzate secondo un modello a reti
orizzontali in uno stato di fluida ricombinazione permanente. Unità
autonome che hanno potere decisionale immediato senza
coinvolgimento della tradizionale catena di comando.

Si parla anche di nuovi approcci tattici..

E' previsto un utilizzo della forza non più secondo un modello
lineare, fatto di incrementi progressivi. Si farà infatti uso di una
strategia shock and awe, che procede attraverso l'erogazione di
inaudita potenza distruttrice a sbalzi. Un modello in cui da una
parte
si isola il nemico polverizzando le infrastrutture della
comunicazione
e dall'altra si incrementa il caos del teatro di guerra procedendo ad
una sistematica terrorizzazione della popolazione civile. E' ovvio
che, al di là di qualsiasi considerazione etica, queste strategie
pongono problemi di ordine logistico. Unità leggere ed autonome,
così criticamente dipendenti dalla stabilità del flusso informazionale
locale/globale, sono anche ovviamente assai vulnerabili. Cosa,
infatti, potrebbe succedere se nel bel mezzo della battaglia tali
networks venissero hackerati da terroristi, o molto più
semplicemente da qualche brufoloso quindicenne del Midwest? In
realtà il Pentagono affianca a questo schema «leggero» un segreto
backup (piano di emergenza) «pesante»: il nucleare. Di fatto, è
questo, il poco pubblicizzato obbiettivo reale che muove la crociata
dei rivoluzionari. Rompere il tabù nucleare, far passare cioè
nell'opinione pubblica, la legittimità di un uso sempre più routinario
delle armi nucleari. Siamo di fronte ad un drammatico shift di
paradigma, una escalation in cui l'uso del nucleare non è più la
estrema ratio a cui ricorrere.

C'é infine un ulteriore terrificante scenario. Un analisi di quanto
pubblicato negli ultimi anni sulla letteratura scientifica del settore,
rivela come la ragione intrinseca per cui il governo americano ha
attivamente sabotato la creazione di un trattato internazionale per
la
limitazione dello sviluppo di armi biologiche é perchè gli Usa
stanno
appunto lavorando alacremente alla messa a punto di un sempre
più potente e devastante biological warfare.

Quale sarà il ruolo della «guerra di propaganda» in questo
mutamento delle strategie militari?

Anche su questo versante i rivoluzionari del Pentagono si
accingono
ad operare un sostanziale salto di paradigma. Stiamo assistendo in
questi giorni all'addestramento militare, un vero e proprio combat
training, di centinaia di giornalisti dei principali media nazionali.
Questa volta dunque, i media saranno presenti sul campo di
battaglia. Una gigantesca operazione di public relation da parte del
Pentagono. E' ovvio che dobbiamo farci ben poche illusioni su
quelli
che saranno i livelli di obbiettività offerti da questi operatori
mediatici
con l'elmetto.

E cosa accadrà negli Stati uniti?

Per prima cosa va registrata l'assenza dalla scena pubblica
dell'area
liberal del partito Democratico. A differenza di quanto succedeva
negli anni `60, il movimento della pace non ha saputo ancora
catalizzare, come avvenne allora, quelle forze della sinistra del
partito democratico che fecero del rifiuto alla guerra la piattaforma
per la candidatura di Kennedy. La cosa grave non è che la maggior
parte dei repubblicani si sono persi dietro a questo folle
avventurismo dell'amministrazione Bush, ma è che il partito
Democratico ha perso qualsiasi contatto con la propria base.

Inoltre, negli Usa stiamo assistendo ad involuzione autoritaria
senza
precedenti. Dico senza precedenti, non perchè gli Stati uniti non
abbiano nel passato conosciuto fasi di repressione di pari intensità.
Da un punto di vista strettamente giuridico, le incredibili limitazioni
alle garanzie e libertà personali contenute nell'Usa Patriot Act non
sono certo peggiori di quanto accadde negli anni `20 o '50. Oggi ci
troviamo di fronte a forme pervasive di controllo sociale che
puntano
a prevenire e repimere forme di dissenso sociale e politico. Le leggi
approvate prima e dopo l'11 settembre rendono più sofisticati le
forme di controllo sociale già operanti, ad esempio, nelle grandi
metropoli. Basti pensare al sempre più pervasivo uso della
videosorveglianza o alla definizione dei gruppi sociali a rischio su
cui
contentrare le operazioni di polizia.

Infine, sempre sul piano interno, pessime notizie vengono dal
mondo del lavoro, dove siamo di fronte ad una fase di
ripiegamento
dell'offensiva sindacale. Ho già detto che molti quadri sindacali si
sono pronunciati contro la guerra contro l'Iraq, ma uno degli effetti
della guerra permanente al terrorismo é stato la riduzione del
numero di vertenze sindacali. L'attuale clima di isteria xenofoba sta
infatti avendo pesanti ripercussioni nel mondo del lavoro. Si pensi
a
quanto succede qui a Los Angeles dove il 40 % della forza lavoro é
composta di latinos che la guerra al terrorismo ha messo nel mirino
di tutte le agenzie dell'inquietante Department of Homeland
Security. Una prodigiosa stagione di rivendicazioni spesso vincenti
si é arrestata e dal giorno alla notte l'organizzazione di lotte operaie
e sindacli é diventata molto difficile.

Su piano internazionale questo governo ha prodotto una profonda e
probabilmente irreversibile frattura con il passato. l'attuale
amministrazione ha rotto con il modello soft che ha segnato la
presidenza di Bill Clinton. Erano quegli gli anni in cui il capitalismo
mirava ad arginare i devastanti effetti della sua espansione a livello
globale attraverso una gestione basata sul consenso. Clinton, dal
posto di comando, operava con una gestione illuminata,
magnanima, volta a non umiliare troppo i partners minori. Bush jr.
opera, al contrario, secondo una strategia primordiale, sanguigna.
Probabilmente, fra cento anni gli storici leggeranno questo periodo
come la disperata risposta di un' insensata oligarchia alle tragiche
contraddizioni eco-sistemiche poste dal modello di sviluppo
capitalista. Una risposta feroce che impone il dominio americano
sul
pianeta al fine di tutelare, il più a lungo possibile, un insostenibile
modello di sviluppo. Prima ancora dell'11 settembre, prima ancora
dell'Iraq, questa amministrazione si è posta come obbiettivo ultimo
quello di mantenere ad ogni costo l'egemonia americana nel
mondo.
Gli integralisti che occupano oggi la Casa Bianca vogliono
prevenire
l'avvento di una seconda superpotenza mondiale. In questo senso
lo
showdown finale sarà, non ora, con il mondo islamico ma bensì fra
qualche decennio con l'oriente. Il vero target di questa svolta
«imperialista» é la Cina.

Cosa fare dunque?

Non credo che la rivoluzione sia possibile ma (ride), credo che, a
questo punto, sia assolutamente necessaria. Dobbiamo recuperare
la convinzione che esiste una reale alternativa a questo modello di
sviluppo. In questa ottica, da studioso dei fenomeni urbanistici, io
credo che un aspetto fondamentale venga dal ripensare il ruolo
della città moderna. Una radicale ridefinizione della idea di città è
infatti, secondo me, la chiave di volta per cominciare a costruire
una
società realmente basata su principi di giustizia sociale ed
eguaglianza. Il segreto é li'. Siamo in una fase in cui la maggior
parte dell'umanità vive in ipertrofiche aree metropolitane,
megalopoli
che si estendono a macchia d'olio e come un cancro
metastatizzano
e divorano ogni risorsa disponibile. Dobbiamo invertire questa
tendenza e recuperare stili di vita che incoraggino un uso razionale
delle risorse. Dobbiamo privilegiare modi di vivere gli spazi urbani
che favoriscano prassi di scambio ed un maggior utilizzo, in
comune, delle risorse. Non ho in mente niente di frugale, al
contrario. Siamo in un periodo in cui le moderne tecnologie e
l'incredibile ricchezza materiale che ci circondano ci permettono di
vivere con livelli di agiatezza straordinari. Dobbiamo solo arrivare
ad
una razionalizzazione, affinché questo incredibile livello di
benessere sia possibile per tutti.












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