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Non si può escludere che il codice di Hammurabi abbia ispirato il
legislatore democratico ai tempi in cui legiferò la legislazione di
emergenza, ma contrariamente alla legislazione babilonese, quella d’
emergenza è viva e vegeta e lotta insieme a noi: in trent’anni non ha mai
cessato di consolarci, né i magistrati di attingervi a piene mani i reati
associativi e d’opinione del mai veramente rinnegato codice fascista

Il cianuro dei curdi e il codice di Hammurabi
di Leporello - da Hortus Musicus, IV (2003), 13 - www.hortusmusicus.com

La giustizia de sto mond
La someja a quij ragner
Ordii in longh, tessuu in redond,
Che se troeuva in di tiner.
Dininguarda ai mosch, moschitt
Che ghe barzega on poo arent,
Purghen subet el delitt
Malapena ghe dan dent.
(Carlo Porta, Ai caroccee e fiaccoree)

La ggiustizzia è pp’er povero, Crestina.
Le condanne pe’ lui sò ssempre pronte.
Sai la miseria che ttiè scritto in fronte?
Questa è carne da bboja; e cc’indovina.
(Giuseppe Gioachino Belli, La ggiustizzia der monno)

Resistere, resistere, resistere, smania lui, in pieno raptus resistenziale.
Sia pure; però lo stoico programma, così com’è, vale solo per i salvati, per
i sommersi ci vuol altro. Perché la resistenza non finisca come l’altra
volta – appunto con salvati e sommersi –, bisognerebbe almeno completare la
geremiade astutamente evocativa, aggiungere un altro imperativo categorico,
un quarto resistere, dedicato a coloro che hanno rinfrescato la formula. I
quali, quanto a sommergere il prossimo, non sono secondi a nessuno. Non lo
dice solo Leporello, lo pensa anche Anna Finocchiaro, responsabile del
‘settore Giustizia’ dei Democratici di Sinistra. Lo ha dichiarato nella
basilica di Bruno Vespa, in occasione della canonizzazione di Andreotti il
giorno dopo il miracolo umbro, sostenendo – a proposito degli arresti
ordinati dalla procura di Cosenza contro i «ribelli meridionali» – che quei
magistrati avevano «commesso un errore serio, molto serio […] contestando
reati che sono propri di uno stato totalitario e che non erano contestati da
almeno trent’anni» (Porta a porta, Rai Uno, 18 novembre 2002). L’onorevole
Finocchiaro sulla questione la sa lunga perché prima di darsi con successo
alla politica ha esercitato il mestiere di pubblico ministero, quindi non
parla a vanvera: se dice «stato totalitario» intende proprio «totalitario» e
se a conti fatti qualcuno si turba avvertendo un implicito, raccapricciante
ossimoro («democrazia totalitaria» o «totalitarismo democratico», a scelta)
si rivolga pure all’onorevole.
Trent’anni fa. La cronologia è nebulosa, ma l’ammissione è preziosa. Diciamo
gli anni dell’inchiesta su piazza Fontana, la morte di Pinelli, la
persecuzione di Valpreda? Ci vogliamo aggiungere la legislazione d’
emergenza? Bisogna essere grati al magistrato di Cosenza che con l’arresto
di pericolosissimi sovversivi virtuali ha provocato – e non in camera
caritatis, ma coram populo – un tale inopinato accesso di sincerità in un
deputato ex magistrato ed ex ministro, per di più di quella sinistra
democratica che trent’anni fa non era affatto in sonno, come dicono i
massoni, ma aveva largamente mano nella pasta giudiziaria. Dunque trent’anni
fa godevamo di un regime giuridico totalitario! Chi lo avrebbe mai detto?
Infatti nessuno lo ha detto, tranne qualche flebile voce dalle patrie
galere. Adesso non sarà il caso, professor Tranfaglia, di riscrivere questa
o quella pagina di storia? In tale prospettiva però qualcosa si deve
obiettare alla gentile signora. Ella parla di regime giuridico
(demo)totalitario come di cosa remota assai, perduta nella notte dei tempi
della civiltà giuridica, un po’ come il codice di Hammurabi. Ora, non si può
affatto escludere che il codice di Hammurabi, della cui sensibilità
umanitaria e garantista si dice un gran bene, abbia ispirato il legislatore
democratico ai tempi in cui legiferò la legislazione di emergenza, però qui
cessa l’accostamento, perché, contrariamente alla legislazione babilonese,
la legislazione d’emergenza è viva e vegeta e lotta insieme a noi: in trent’
anni non ha mai cessato di consolarci né i magistrati – come appunto ora
quello di Cosenza – di attingervi a piene mani i reati associativi e d’
opinione del mai veramente rinnegato codice fascista, sempre arzilli, i
magistrati, e sicuri del fatto loro, di quello dei ‘pentiti’, degli indizi e
dei teoremi. Perciò cogliamo l’occasione che l’onorevole Finocchiaro ci
offre per mettere meglio a fuoco questa faccenda della giustizia
totalitaria: per la storia, ma un po’ anche per il presente, senza dire del
futuro. Tuttavia non vorremmo essere fraintesi. Noi non pretendiamo che i
magistrati siano giusti. La giustizia, si sa, non è di questo mondo. Lo
sapeva bene anche Hammurabi e il cardinale Biffi non smette di ricordarcelo,
promettendocela in un altro sito, se non proprio sicura almeno gratuita.
Però qualcosa in cambio forse si può chiedere, se non altro a titolo
conoscitivo. Ma andiamo per ordine.
***
«Narrerò semplicemente come andarono le cose, senza metterci niente di mio,
il che per uno storico non è piccolo sforzo». Per fedeltà al programma di
Voltaire non si può negare alla magistratura il diritto storicamente
acquisito di riconoscersi nel motto resistere, resistere, resistere. Infatti
nessuno ha saputo resistire meglio al cambiare dei tempi, dei regimi e dei
codici, sempre fedele a se stessa, alla missione di affidabile interprete
della maestà della Legge e delle necessità del Principe, zelante e
imperturbabile alla natura mutevole del legislatore e alla sua variabile
mente giuridica, per disturbata che fosse (leggi razziali incluse). Il
potere legislativo, il potere esecutivo nonché il gioco del lotto hanno
cambiato forma nel trapasso dalla monarchia fascista alla repubblica, dalla
prima repubblica alla seconda. Il potere giudiziario no: a forza di
resistere, resistere, resistere, è sempre lì uguale e incrollabile, insieme
ai carabinieri il potere che meglio illustra e assicura, oltre alla propria,
la continuità dello Stato assiduamente certificata, lippis et tonsoribus,
dal presidente Ciampi. Certo, non un percorso piatto, il suo. In certi
periodi la sua produttività è stata ben più alta del solito, con punte
record di solerzia e immaginazione giudiziaria. Buon esempio la stagione
cominciata alla fine degli anni Sessanta con l’arresto di Valpreda e il
«malore attivo» di Pinelli – la paradossale tesi «che Pinelli non si fosse
ucciso, né che fosse stato ucciso», in forza della quale il caso fu
definitivamente archiviato nel 1975 dall’allora ­Giudice Istruttore Gerardo
D’Ambrosio, risultandone «comunque l’effetto di mandare assolti gli imputati
non solo dall’accusa di omicidio volontario, ma anche da quella di omicidio
colposo per l’omessa custodia, se fosse stata accolta la tesi del suicidio»
(A. Sofri, Il malore attivo dell’anarchico Pinelli, Sellerio, Palermo 1996,
p. 14). Per la magistratura e le forze dell’ordine quella stagione,
culminata con il processo «7 aprile», fu un ­periodo di fervida
sperimentazione e di meravigliosa creatività. Si potevano infliggere secoli
di carcerazione preventiva senza che «la pubblica opinione» – qualunque
oscenità si intenda con questo eufemismo – si turbasse troppo: si potevano
torturare i terroristi catturati e confidare, se del caso, in condanne assai
lievi e repentine amnistie dei seviziatori, si poteva spedire un’intera
generazione di «ribelli» in galera e buttare la chiave, sulla base di
processi generosamente indiziari. Si poteva fare – compromesso storico
consule – e fu fatto. E tutto ciò godendo di una copertura parlamentare e
mediatica pressoché unanime. Altro che «Mani Pulite»!, allora sì che c’era
solidarietà, che l’Interesse generale si stringeva a coorte e faceva
giustizia dei sofismi umanitari e garantisti. Nel 1978, ad esempio, quando i
radicali indissero il referendum per l’abrogazione della legge Reale sull’
ordine pubblico perché pensavano, come pensa adesso l’onorevole Finocchiaro,
che fosse una legge totalitaria, si ebbe una spettacolare epifania dei
diritti robotici ­delle maggioranze: il 76,5% delle masse democratiche si
espresse per il no, grazie soprattutto al massiccio impegno promozionale del
PCI (una edificante percentuale, di molto superiore, si badi bene, a quella
dell’11 giugno 1995, che ne era del resto il prolungamento e il
completamento: quando, con grande ma ingiustificato scandalo libertario
della Sinistra il 55,7% delle medesime masse democratiche, opportunamente
programmate da un paio di decenni di cultura nazionalpopolare, difese
vittoriosamente il proprio diritto al sonnambulismo e alla dose giornaliera
di «interruzioni pubblicitarie dei programmi televisivi»). Poi il consenso
totalitario un po’ si restrinse con l’affaire Tortora, uno dei più accaniti
giustizieri mediatici di Valpreda, insieme al quotidiano capobastone l’
Unità. Il presentatore venne atrocemente incastrato da quella macchina
giudiziaria che quando stritolava gli altri gli appariva tanto
necessariamente efficiente, sperimentando su di sé la verità dell’antico
adagio napoletano: «’A iustizia piace, ma no a purtarla ’ncuollo».  Finì
dignitosamente per morirne, ma la nemesi fece impressione a molti e la
magistratura si dileguò per qualche tempo nelle nebbie dei suoi porti. Senza
peraltro rinunziare davvero all’affabulazione teorematica nei confronti
della sovversione – evitando quanto possibile di occuparsi di eversione – e
sempre secondo i precetti del manuale del buon inquisitore. Non è un luogo
comune, questo dell’iter inquisitorio, è prassi consolidata e talvolta
esplicitata. Ad esempio, il gip che il 22 novembre scorso ha scarcerato
alcuni tra i summenzionati «ribelli meridionali» indagati per sovversione,
istigazione a disobbedire alle leggi dell’ordine pubblico e cospirazione, lo
ha fatto, come si legge nella relativa ordinanza, perché gli improbabili
new-decabristi «hanno abiurato e fornito elementi a discolpa» (e voila, ecco
a voi la famosa inversione dell’onere della prova) e inoltre «hanno preso le
distanze dalla Rete meridionale per il sud ribelle […] recedendo dall’
accordo e dall’associazione». Di una tale logica inquisitoria, di un tale
impeto hammurabico-torquemadico santamente opposti alle insidie della
sovversione, chi potrebbe dare rappresentazione più pertinente dell’antica
vignetta di Altan: «Io a ’sti violenti gliè spezzerebbe le tibbie e i
peròni»?
Lasciate che Leporello, candidamente dimentico di Santo Uffizio e Carl
Schmitt, in uno dei suoi accessi di malinconia borbotti in proposito tra sé
e sé alcune domande senza risposta e qualche riflessione a fondo perduto:
lui, il gip, quella gran brutta cosa della violenza, l’ha mai abiurata?
Intendo quella che lo riguarda direttamente, per esempio la violenza di
chiudere le persone in una cella in attesa di giudizio definitivo
(condizione in Italia di circa la metà dei carcerati, bella parte dei quali,
se tutto va bene, alla fine assolti, in alcuni anni nella mostruosa
proporzione del 50%), o quella, orribile, di interrogarle fino ad ottenerne
un’abiura. Insomma, il quotidiano lavoro dei «burocrati della violenza»,
come li chiama Antonio Cassese. Violenza assai peggiore, se di fronte all’
infrangibilità della legge fossero lecite gerarchie di disvalori, rispetto a
quella dei molestatori di cassonetti e degli stupratori di vetrine. Crimini
odiosi questi, s’intende, come sa chiunque sia sinceramente affezionato a un
cassonetto o alla propria vetrina. Ma qui, signori miei, diciamocelo con
franchezza anche se non si dovrebbe dire, non c’è paragone. E d’altra parte
i molestatori di cassonetti purghen subet el delitt / malapena ghe dan dent.
Ma che dire del funzionario di polizia ripreso dalle telecamere a Genova
durante il G8 mentre sferra un devastante calcio in faccia a un ragazzino di
quindici anni, inginocchiato e circondato dalle forze dell’ordine, povero,
inerme moschitt caduto nel ragner? Lo ha visto tutto il mondo, ma nessuno ci
ha ancora rivelato se costui (il poliziotto, dico) ha abiurato la deprecata
violenza. Eppure il cittadino, almeno quello che vota e paga le tasse,
dovrebbe esserne informato, non sia mai l’energumeno gli comparisse davanti,
che so, mentre chiede il passaporto in questura o va a denunciare la
scomparsa del cane. E quelli che hanno fracassato teste e arti nella scuola
Diaz a Genova o torturato a Bolzaneto e nella caserma Ranieri a Napoli? L’
hanno abiurata la violenza davanti a un gip? Qualcuno gliel’ha chiesto? E se
uno di loro ferma un cittadino durante un controllo stradale, il cittadino
come si deve regolare? Mentre estrae patente e libretto gli chiede che pensa
dell’argomento o telefona di corsa a un gip? E se putacaso (tra gli avvocati
che si occupano di migranti si vocifera che talvolta accade, ma si sa come
sono fantasiosi gli avvocati), se putacaso un cittadino extracomunitario
incontra di sera un violento in divisa, magari relapso, che lo ferma e
siccome non trova nulla, ma proprio nulla da contestargli lo costringe a
salire in macchina, lo porta a trenta chilometri dalla città, gli toglie le
scarpe e se ne va? Quale giustizia lo risarcirà della violenza? Quella del
cardinale Biffi?
Sono domande per sapere, solo per sapere.
***
A proposito di extracomunitari. Permettete che Leporello, rinunziando a dare
risposta alle proprie malinconiche domande, vi racconti un’altra storia di
mosch e moschitt di cui probabilmente non sapete nulla e dalla quale almeno
le anime più sensibili trarranno una morale sull’Italia e la sua giustizia
democratica e totalitaria. Qualcuno ricorderà che il 3 marzo 2002 le prime
pagine dei ­quotidiani erano in larga parte dedicate all’arresto di sei
pericolosi mussulmani: «Terrorismo, il nuovo commando aveva il cianuro»
(Corriere della Sera); «I terroristi arrestati parlavano di armi e cianuro.
Le cellule romane di al Qaeda. In una conversazione ‘captata’ nella moschea
di via Gioberti si parla di veleno e armi» (Il Messaggero); «Ricompare lo
spettro del cianuro. La parola intercettata in una conversazione fra tre dei
sei sospetti terroristi arrestati» (La Padania); «Riaffiora l’
potesi ­cianuro nell’indagine romana sulla pista islamica» (Il Giornale di
Vicenza) e via titolando. Era successo che due giorni prima, dopo mesi e
mesi di indagini, infiltrazioni, intercettazioni e brillanti deduzioni della
I sezione del loro Nucleo operativo, i carabinieri, oltre a fermare un
pakistano, un algerino e un tunisino, avevano bloccato alla stazione Termini
tre curdi iracheni che avevano appena acquistato un biglietto Roma-Parigi,
evidente indizio di fuga. I presunti terroristi avrebbero avuto come
bersaglio
l’ambasciata degli Usa, ma anche l’Italia e presumibilmente, scrive il gip,
il nostro ordinamento costituzionale [ndr: sic!]. Nelle intercettazioni,
poi, non ci sono solo riferimenti alle armi, all’addestramento militare all’
estero, alla violenza contro le forze dell’ordine. La parola cianuro è
pronunciata in una conversazione registrata del 20 febbraio scorso fra i tre
iracheni arrestati – Salah Faysal Muhamed, Ahamad Isa Muhamed e Ali Hemim
Kadir – che parlano in italiano nella moschea di via Gioberti. «L’esplicito
riferimento alle armi e al modo di accedere alle stesse, l’esigenza di usare
un vestito di cui non si dispone [ndr: sic!], l’univoca citazione del
veleno, in particolare del cianuro, – scrive il gip – costituiscono
espressioni che confermano la partecipazione degli indagati a un programma
riconducibile all’eversione islamica, o comunque [ndr: sic!] ai progetti di
quelle frange estremiste volte all’affermazione della propria ideologia
mediante l’uso della violenza» (La Padania).
Naturalmente, anche se «armi ed esplosivo non vengono trovati» permane l’
accusa di «associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e violazione
della legge sulle armi», ma è evidente che ad infoiare tutti è la storia del
cianuro, la cui perfida manipolazione evoca afrori di Oriente misterioso. I
politici, come al solito, non tardano ad appropriarsi degli altrui meriti
ostentando generosi riconoscimenti:
Le due recenti operazioni contro il terrorismo internazionale «sono state
messe a segno grazie al funzionamento dei nostri servizi di intelligence e
delle nostre forze di polizia», ha detto il ministro della Difesa, Antonio
Martino, di ritorno da Kabul, sottolineando la necessità di una riforma dei
servizi di sicurezza, ma invitando a «non buttare a mare» tutto quello che
fanno (Il ­Messaggero).
E ancora:
Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli, vanta tra i «meriti» del
governo «la lotta al terrorismo internazionale». Parlando al «Filaforum» di
Assago, in occasione del quarto congresso della Lega Nord, il Guardasigilli
ha affermato: «Grazie ai nostri decreti siamo il Paese che ha arrestato più
terroristi islamici. Sappiate che, quando leggete sui giornali radical-chic
che l’Italia non vuole combattere il terrorismo, non è vero niente. Lo dico
con orgoglio, grazie ai nostri provvedimenti legislativi siamo il Paese in
Europa che ha effettuato il maggior numero di arresti» (ivi, 4 marzo).
Ma qualche problema emerge. Nessuno abiura, tutti negano tutto e uno di
loro, il pakistano Ahmet Naseer – laureato in fisica e matematica, in Italia
da dieci anni e ritenuto il capo del gruppo – deve essere subito rilasciato
poiché «dopo gli accertamenti negli uffici dei Carabinieri del Nucleo
operativo di via In Selci», si è appreso che «nessun elemento sarebbe emerso
per trattenere il pakistano» (La Padania). Il dottor Naseer, come si
apprende dal manifesto del 6 marzo
ha confermato di conoscere i due interrogati prima di lui: il tunisino detto
Naim e l’algerino Chaid Goumri, entrambi poco più che trentenni e gravemente
handicappati. Il primo ha le gambe fuori uso e cammina a fatica:
incensurato, è difeso anche dall’imam Samir Khaldi della moschea «al Huta»
di Centocelle, un centro islamico per nulla ‘chiacchierato’ attivo dal ’94.
Il secondo, l’algerino Goumri, ha subito anni fa l’amputazione della gamba
sinistra: gli inquirenti ritengono che abbia contatti con un esponente del
Gia, il Gruppo islamico armato algerino, Ferdjani Mouloud. Secondo l’
ordinanza, Goumri era «un mero partecipe dell’associazione, probabilmente
impiegato nel recapito di messaggi, ma non per questo meno importante per il
rapporto di fiducia che lo lega a Naim e, per suo tramite, a Naseer». Naim,
per l’accusa, si occupava delle armi […].
D’altro canto, i tre curdi iracheni, come spiegò l’avvocato Manuela Lupo,
«impauriti perché clandestini e semi-analfabeti, ­erano caduti dalle nuvole
di fronte alle intercettazioni in cui avrebbero parlato di vestiti e…
cianuro» (ibid.).
Poi sulla storia è calato il silenzio. Per mesi e mesi non si è saputo più
nulla, fino a quando il 16 novembre scorso, sfogliando in mancanza di meglio
le pagine della cronaca romana di Repubblica avreste potuto imbattervi in
questo scarno trafiletto:
«Terrorismo. Del tutto innocenti tre curdi arrestati»
Crollano gli elementi di accusa nei confronti dei tre curdi-iracheni
arrestati l’1 marzo scorso con l’accusa di associazione sovversiva e
violazione della legge sulle armi. Gli esperti hanno precisato che la parola
cianuro in italiano e quella pronunciata in curdo avevano significato del
tutto diverso. Muhamed Salah Faysal, Muhamed Ahamed Isa e Kadir Ali Hemin
potrebbero uscire oggi stesso. Giorni fa si era conclusa in modo analogo la
vicenda di due bengalesi.
Invano avreste cercato traccia della notizia sull’edizione nazionale di
Repubblica e invano l’avreste cercata sugli altri quotidiani che nel marzo
si erano occupati della faccenda, sparandola sulle prime pagine a caratteri
cubitali. Era tutto lì, bisognava accontentarsi e rinunciare alla
comprensione dei misteri che si celavano fra quelle poche righe. Per
esempio, chi saranno mai stati i due bengalesi? Forse si intendeva fare
riferimento all’algerino e al tunisino di cui parlava il dottor Naseer? E i
tre curdi, una volta usciti di prigione dopo gli otto mesi e mezzo occorsi
agli «esperti» per scagionarli, saranno stati rispediti nelle accoglienti
braccia irachene in attesa di essere bombardati? Oppure saranno stati messi
sul primo treno per Parigi? E se è valida la seconda ipotesi, il biglietto
glielo avranno rimborsato? Ma, soprattutto, quel gip avrà abiurato la
violenza?
P.S. In omaggio a Voltaire e alla verità storica bisogna ammetterlo. Non
sarebbe giusto dire che i quotidiani il 16 novembre 2002 non si occuparono
affatto dei curdi di Roma. Fa fede del contrario la seguente notizia apparsa
quel giorno sul Corriere della Sera:
«Domus Aurea, sgomberati 80 curdi»
La polizia ha fermato ieri mattina, a Colle Oppio, un’ottantina di immigrati
curdi che da mesi occupavano l’area che sovrasta la Domus Aurea. Tra loro,
anche 5-6 bambini. Gli immigrati di notte dormivano in capanne di cartone e
di giorno andavano alla mensa della Caritas. Dopo i controlli, effettuati
dal commissariato Esquilino, i bambini sono stati rifocillati e affidati
agli assistenti sociali in attesa che gli adulti vengano identificati presso
l’ufficio stranieri della Questura. Dopo lo sgombero dell’accampamento, gli
operatori dell’Ama hanno ripulito l’intera area.
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Primati
In Italia ci sono cinque corpi di polizia «nazionali», con un totale di
oltre 300 mila ­uomini. Di questi, circa 110 mila sono carabinieri, 105 mila
poliziotti e 55 mila finanzieri. Ci sono poi forestali e polizia
penitenziaria. Questi numeri proiettano il nostro Paese al vertice delle
graduatorie continentali. Considerando soltanto polizia di Stato e
carabinieri l’Italia è terza in Europa nel rapporto fra poliziotti e
abitanti. Se si calcolano anche le altre forze, invece, è prima. La riforma
Berlusconi-Bossi-La Loggia consentirà alle Regioni la facoltà di dotarsi
anche di corpi di polizia locale, il cui costo sarà aggiuntivo rispetto a
quello già sostenuto dallo Stato.
(Cinque «corpi» nazionali con 300 mila uomini, Italia prima nella Ue.
Polizia, quella locale farà salire i costi, Corriere della Sera, 26 novembre
2002)


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