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Intervista a Bill Joy, ricercatore di punta della Silicon Valley

Tecnologie «cattive». Attenzione a Internet
L'enorme potenza dei computer e della scienza offre la possibilità di rifare il mondo in peggio



«Rischiamo di fornire elementi di conoscenza al terrorismo». Suona così l’allarme lanciato da 32 direttori delle maggiori riviste scientifiche americane, quando hanno annunciato l’introduzione di forme di censura nella pubblicazione dei risultati di ricerche che contengano informazioni «sensibili». Una preoccupazione analoga a quella espressa già tre anni fa da Bill Joy, uno degli scienziati di punta dell’industria hi-tech di Silicon Valley: «L’enorme potenza di calcolo dei computer e gli sviluppi delle scienze fisiche offrono per la prima volta la possibilità di rifare il mondo». Con il risultato che «le nuove tecnologie, l’ingegneria genetica, le nanotecnologie, la robotica minacciano di diventare le vere armi di distruzione di massa del ventunesimo secolo, liberamente reperibili su Internet, a disposizione di singoli individui come di gruppi di terroristi».


Il «guru» della Silicon Valley Bill Joy

Era l’aprile 2000 quando sulla rivista Wired apparve il suo saggio «Why the future doesn’t need us», Perché il futuro non ha bisogno di noi . Allora, quelle tesi costarono a Joy l’accusa di tradimento, soprattutto nella comunità della Silicon Valley, dove software e ingegneria genetica sono il biglietto d’ingresso verso inesauribili profitti industriali e dove lo stesso Joy, chief scientist della Sun Microsystems, è considerato una delle teste più lucide. La sua era dunque una voce dal di dentro, una delle più autorevoli, che di colpo ha cominciato a pronunciare eresie. «Ho sempre pensato che progettare software più affidabili avrebbe reso il mondo un posto migliore e più sicuro - confessava -. In caso contrario mi sarei sentito moralmente obbligato a fermarmi. Adesso credo che quel giorno sia venuto».
A distanza di tre anni, Joy sta portando termine il libro in cui approfondisce le tesi di Perché il futuro non ha bisogno di noi. Ma il suo allarme ora è largamente condiviso. L’11 settembre e le lettere all’antrace, i venti di guerra sull’Iraq e il riarmo nordcoreano hanno riportato sull’opinione pubblica la paura delle armi di distruzione di massa: perlomeno quelle del ventesimo secolo, dal nucleare al chimico. «Sì, fra la gente comune vedo una maggiore consapevolezza - concede Joy -. Ma nel complesso non credo affatto che la situazione sia migliorata. Anzi».


Colpa del clima politico internazionale?
«In buona parte, sì. Ricordiamoci di qual era l’atteggiamento dell’amministrazione Clinton: c’è la minaccia irachena? Cerchiamo di contenerla. C’è la Nord Corea? Proviamo a comprarla coi dollari. Ora invece la dottrina Bush dice sostanzialmente che se qualcuno pensa di dotarsi di nuove armi, noi l’avremo già fatto, saremo sempre più avanti di tutti. E siamo disposti a usarle preventivamente. E’ la formula per una nuova corsa agli armamenti, di ogni tipo, anche biotecnologico».


La presa di posizione dei 32 direttori segna un cambio di atteggiamento della comunità scientifica?
«Conosco molti biologi e biochimici perfettamente consapevoli di non poter più continuare a lavorare come hanno fatto finora. Ma, in generale, gli scienziati hanno paura che le loro ricerche siano sottoposte a restrizioni. Pensano che sia un po’ come rinchiudere in casa Galileo. E che quello che loro non sono più in grado di fare, lo farà comunque qualcun altro, legalmente o meno. Bisogna trovare un punto d’equilibrio, dettato dall’etica. Gli scienziati dovrebbero essere tenuti ad assumersi la responsabilità delle conseguenze che le ricerche possono provocare: intendo anche la possibilità che si verifichino incidenti o che certe cose vadano in mano a persone pericolose. Se non si può bloccare la ricerca sulle biotecnologie, si può cercare di limitare l’accesso a certe informazioni. Ma devono essere i biologi a decidere quali aree debbano essere sorvegliate».


E chi controlla?
«Anziché limitarsi a mettere tutte le informazioni su Internet, disponibili per chiunque, tutti i biologi che lavorano in America dovrebbero unirsi e stanziare cento milioni o un miliardo di dollari per creare un’enorme banca dati in cui far confluire tutte le conoscenze sul genoma umano o, meglio ancora, su tutti i meccanismi del corpo umano. Sarebbe più semplice controllare chi ha accesso a quelle informazioni e sottoporre il sistema a un costante monitoraggio».


Controlli, monitoraggio: ma chi può coprirne i costi? Comunità scientifica? Imprese private? I governi con il sistema fiscale?
«Per quanto riguarda i governi, penso che il miglior uso delle risorse sia quello di ridurre le tensioni, di alleviare le situazioni di povertà che contribuiscono a provocare risentimento. Come si affronta il problema del riarmo nordcoreano? Probabilmente sarebbe meglio aiutare lo sviluppo economico di quel Paese».


La ricerca sulle nuove tecnologie viene svolta prevalentemente da industrie private che hanno come obiettivo il profitto. Dopo l’11 settembre, le sembra che fra le aziende ci sia maggiore senso di responsabilità?
«E’ solo nei film di James Bond che c’è sempre una sola industria cattiva e un solo scienziato folle. Nella realtà ce ne sono molti di più. Basti pensare agli scandali finanziari che hanno travolto Wall Street. Più che degli uomini, bisogna fidarsi delle leggi. Di fronte ad abusi, vanno individuati i correttivi. Questo vale per le ricerche scientifiche in campi potenzialmente pericolosi come biotecnologie o nanotecnologie. Servono senso di responsabilità e leggi severe, scrupolosamente applicate. Prendiamo il caso dell’Iraq e delle sue presunte armi di distruzione di massa: se vogliamo che le ispezioni siano efficaci dovremmo andare a controllare le aziende, americane come europee, che potrebbero aver fornito quegli armamenti. Ma non mi sembra che i governi occidentali siano disposti a farlo».


Lei dice che dopo l’11 settembre l’opinione pubblica in America è diventata più consapevole dei pericoli. Ma un conto sono i kamikaze e l’antrace, un altro le «nuove» armi biotecnologiche. Non le sembra che siano ancora percepite come una minaccia astratta?
«E’ così. La gente ha paura dell’antrace, ma l’antrace non è contagioso. L’11 settembre le Twin Towers sono crollate e tremila persone sono morte. Anch’io ero a New York e sono rimasto scioccato. Ma tremila persone non sono una catastrofe pari all’epidemia di vaiolo che falcidiò la popolazione ai tempi della colonizzazione del Nord America. Il problema è far capire che anche in questo secolo il vaiolo, facilmente prodotto in laboratorio, è una perfetta arma di distruzione di massa. Se scoppiasse un’epidemia, allora la gente se ne renderebbe conto. Tutti capirebbero che potrebbe toccare anche a loro. Ma senza un incidente è difficile che l’opinione pubblica possa avere la percezione di quali rischi corre».


Giancarlo Radice
Corriere della Sera 13 Marzo 2003

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