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[dal numero di Posse, *Mappe politiche della moltitudine*. /m]


La moltitudine e la metropoli
Antonio Negri



1. "Generalizzare" lo sciopero.

È stato interessante notare, in occasione delle scadenze di lotta della
primavera e dell’estate 2002 in Italia, come il progetto di "generalizzare"
lo sciopero da parte dei movimenti dei precari, degli operai sociali, donne
o uomini che fossero, sia parso scivolare in maniera pressoché innocua e
inutile attraverso lo "sciopero generale" degli operai. Dopo questa
esperienza molti compagni che hanno partecipato alla lotta, hanno cominciato
ad accorgersi che, mentre lo sciopero operaio "faceva male" al padrone, lo
sciopero sociale passava, per così dire, attraverso le pieghe della giornata
lavorativa globale, non faceva male ai padroni né bene ai lavoratori mobili
flessibili. Questa constatazione solleva un problema: è quello di
comprendere come lotta l’operaio sociale, come esso può concretamente
rovesciare nello spazio metropolitano la subordinazione produttiva e la
violenza dello sfruttamento. Si tratta di chiedersi, cioè, come la metropoli
si presenti davanti alla moltitudine e se sia corretto dire che la metropoli
sta alla moltitudine come la fabbrica stava alla classe operaia. Di fatto
questa ipotesi ci si presenta come problema. Esso non è stato semplicemente
sollevato dalle evidenti differenze di efficacia immediate tra lotte sociali
e lotte operaie, ma anche da una questione molto più pertinente e generale:
se la metropoli è investita dal rapporto capitalistico di valorizzazione e
di sfruttamento, come si può, al suo interno, cogliere l’antagonismo della
moltitudine metropolitana ? Negli anni Sessanta e Settanta a questi
problemi, man mano che essi insorgevano in relazione alle lotte di classe
operaia ed alle mutazioni degli stili di vita metropolitani, si dettero
varie risposte, spesso molto efficaci. Di qui a poco le riassumeremo. Qui
vale solo la pena di sottolineare come quelle risposte riguardassero un
rapporto esterno fra classe operaia e altri strati metropolitani del lavoro
salariato e/o intellettuale. Oggi il problema si pone in maniera diversa
perché oggi le varie sezioni della forza lavoro si presentano nell’ibrido
metropolitano come rapporto interno e cioè immediatamente come moltitudine:
un insieme di singolarità, una molteplicità di gruppi e di soggettività, che
mettono in forma (antagonistica) lo spazio metropolitano.



2. Anticipazioni teoriche.

Tra gli studiosi della metropoli (architetti ed urbanisti), è stato Koolhaas
a darci, in maniera delirante, verso la fine dei Settanta, una prima nuova
immagine della metropoli. Alludiamo, evidentemente, a Delirious New York. In
che cosa consisteva la tesi centrale di questo libro? Consisteva nel dare
un’immagine della metropoli che, oltre ed attraverso la pianificazioni (su
di essa sempre, in maniera più o meno coerente, sviluppate), viveva tuttavia
di dinamiche, conflitti e sovrapposizioni potenti di strati culturali, di
forme e di stili di vita, di una molteplicità di ipotesi e di progetti
sull’avvenire. Voi dovevate guardare questa complessità, questa microfisica
di potenze dal di dentro, per comprendere la città. New York, in
particolare, era l’esempio di uno straordinario accumularsi storico e
politico, tecnologico ed artistico, di varie forme di programmazione urbana.
Ma non bastava. Occorreva aggiungere che la metropoli era più forte
dell’urbano. Gli interessi speculativi e le resistenze dei cittadini
sconfiggevano e travolgevano ad un tempo, le prescrizioni del potere e le
utopie degli oppositori. Il fatto è che la metropoli confondeva e mescolava
i termini del discorso urbanistico: a partire da una certa intensità urbana,
la metropoli costituiva nuove categorie, era una nuova macchina
proliferante. La misura si smisurava. Si trattava dunque, ad un tempo, di
dare della metropoli, di New York nella fattispecie, un’analisi microfisica,
che andasse all’incontro sia delle mille e mille singolarità agenti, sia
delle forme di repressione e blocco che la potenza della moltitudine
trovava. È così che l’architettura di Koolhaas si eleva attraverso grandi
misure di convivenza urbana, che vengono poi travolte, mutate e mescolate ad
altre forme architetturali... è una grande narrazione quella che
l’architettura di Koolhaas esprime, la grande narrazione della distruzione
della città occidentale, per dare luogo ad una metropoli meticciata. Non è
rilevante (anche se utile a comprendere) che in Koolhaas lo sviluppo
architetturale sia classificato in maniera funzionale alle varie tecniche
dell’organizzazione del lavoro edilizio. Ciò che interessa è esattamente il
contrario: pur attraverso una corporativizzazione industriale degli agenti
della produzione, qui si percepisce quanto ormai la metropoli si organizzi
su livelli continui ma storti, fedeli al Welfare ma ibridi. La metropoli è
mondo comune. Essa è il prodotto di tutti -- non volontà generale ma
aleatorietà comune.

Così la metropoli si vuole imperiale. I postmoderni deboli sono battuti in
breccia da Koolhaas. Koolhaas anticipa infatti, pescando nella genealogia
della metropoli, un’operazione che nel postmoderno maturo diventa
fondamentale: il riconoscimento della dimensione globale come più produttiva
e più generosa dal punto di vista delle figure economiche e degli stili di
vita. Questo sforzo critico non è solitario né neutralizzante. Al contrario
produce altra critica, la affida al movimento reale. Per esempio, quando noi
introduciamo elementi diferenziali e antagonistici nel sapere della città, e
di questi facciamo il motore della costruzione metropolitana, noi componiamo
anche nuovi quadri del vivere e del lottare -- comuni. Ancora un esempio tra
gli altri: a proposito di metropoli e collettivizzazione. Questa vecchia
parola socialista è certo ormai obsoleta e del tutto superata nella
coscienza delle nuove generazioni. Ma non è questo il problema. Il progetto
non è quello di collettivizzare bensì quello di riconoscere e di organizzare
il comune. Un comune fatto di un patrimonio ricchissimo di stili di vita, di
mezzi collettivi di comunicazione e riproduzione della vita e, soprattutto,
dall’eccedenza dell’espressione comune della vita negli spazi metropolitani.
Godiamo di una seconda generazione di vita metropolitana, creativa di
cooperazione ed eccedente nei valori immateriali, relazionali, linguistici
che produce. Ecco la metropoli della moltitudine singolare e collettiva.

Ci sono molti postmoderni che rifiutano la possibilità di considerare la
metropoli della moltitudine come spazio collettivo e singolare,
massicciamente comune e soggettivamnte malleabile e sempre nuovamente
inventata. Questi rifiuti sostituiscono all’analista il buffone o il
sicofante del potere. Di fatto noi abbiamo recuperato l’idea delle economie
esterne, delle dinamiche immateriali, i cicli di lotta e tutto quello che
compone la moltitudine. New York è postmoderna, nella misura in cui ha
partecipato a tutti gradi del moderno, e li ha, per così dire, consumati
nella critica e nella prefigurazione di altro: il risultato è un ibrido,
l’ibrido metropolitano come figura spaziale e temporale delle lotte, piano
della microfisica dei poteri.



3. Metropoli e spazio globale.

é Saskia Sassen che, prima e più di ogni altro, ci ha insegnato a vedere la
metropoli, tutte le metropoli, non solo, da Koohlaas, come un aggregato
ibrido ed interiormente antagonista, ma come figura omologa della struttura
generale che il capitalismo ha assunto nella fase imperiale. Le metropoli
esprimono ed individualizzano il consolidarsi della gerarchia globale, ai
suoi punti più articolati, in un complesso di forme ed esercizio del
comando. Le differenze di classe e la programmazione generica nella
divisione del lavoro ormai non si fanno più tra nazioni ma tra centro e
periferia, nelle metropoli. Sassen va a guardare i grattacieli per tirarne
lezioni implacabili. Di sopra ci sta chi comanda e di sotto chi obbedisce;
nell’isolamento di quelli che stanno più in alto sta il collegamento con il
mondo, mentre nella comunicazione di quelli che stanno più in basso, stanno
i punti mobili, gli stili di vita e rinnovate funzioni della ricomposizione
metropolitana. Per questo noi dobbiamo attraversare gli spazi possibili
della metropoli, se vogliamo riannodare le fila della lotta, per scoprire i
canali e le forme di collegamento, i modi in cui i soggetti stanno assieme.
La Sassen ci propone di guardare i grattacieli come struttura
dell’unificazione imperiale. Ma al tempo stesso insinua la sottile
provocatoria proposta di immaginare i grattacielo non come un tutto ma come
un sopra e un sotto. Tra il sopra e il sotto corre il rapporto di comando,
di sfruttamento, e quindi la possibilità di rivolta.

I temi della Sassen si sono ripercossi fortemente, in Europa, negli anni
Novanta, quando, con qualche difficoltà, pur tuttavia efficacemente, alcune
forze antagoniste hanno cominciato a vedere nella struttura della metropoli
rispecchiarsi le contraddizioni della globalizzazione. Di fatto, che ci
fossero grattaceli o no, comunque l’ordine globale ristabiliva un alto e un
basso nella metropoli, che era quello di un rapporto di sfruttamento che si
stendeva sull’orizzonte interno della società urbana. Sassen ci mostrava i
luoghi e le relazioni dello sfruttamento e dissolveva la moltitudine
riportandola all’esercizio disperso di attività materiali. D’altra parte c’è
il comando. Blade Runner è diventato una finzione scientifica.



4. Anticipazioni storiche.

Ma le metropoli dei grattacieli e dell’Impero altri le vedono piuttosto come
luoghi di lotta, che possono rivelare aspetti comuni e soprattutto possono
incarnare trafile ed organizzazioni di resistenza e di sovversione.
L’esempio che immediatamente viene alla mente, a questo proposito, è quello
delle lotte parigine dell’inverno ’95-’96. Queste lotte vengono ricordate
perché in quell’occasione i progetti di privatizzazione dei trasporti
pubblici parigini furono respinti, non solo dai sindacati, ma dalle lotte
congiunte di gran parte della popolazione metropolitana. Queste lotte,
tuttavia, non avrebbero mai raggiunto l’intensità e l’importanza che ebbero
se non fossero state attraversate, e già prima in qualche modo prefigurate,
dalle lotte dei sans-papiers, sans-logement, sans-travail ecc. Vale a dire
che il massimo della complessità metropolitana apre vie di fuga a tutta la
povertà urbana: è qui che la metropoli, pur quella imperiale, si risveglia
all’antagonismo.

Negli anni Settanta questi sviluppi e questi antagonismi erano stati
anticipati: in Germania, negli Stati Uniti, in Italia. Il grande passaggio
dal fronte di lotta della fabbrica a quello della metropoli, dalla classe
alla moltitudine, è stato vissuto ed organizzato, teoricamente e
praticamente, da moltissime avanguardie. "Prendiamoci la città" era una
parola d’ordine italiana, insistente, importante, travolgente. Parole simili
traversarono le Bürger-initiativen tedesche, ma anche le esperienze degli
squatters in quasi tutte le metropoli europee. Gli operai di fabbrica si
riconoscevano in questo sviluppo, mentre l’ordine sindacale e quello dei
partiti del movimento operaio lo ignorarono. Lo sciopero del biglietto nei
trasporti, le occupazioni massicce delle case, la presa in mano dei
quartieri per organizzare tempo libero e sicurezza dei lavoratori contro la
polizia e gli esattori fiscali, eccetera, insomma la presa in mano di zone
della città, fu un progetto perseguito con molta attenzione. Queste zone si
chiamavano allora "basi rosse", ma spesso non erano luoghi, bensì spazi
urbani, luoghi d’opinione pubblica. Qualche volta capitava anche che fossero
decisamente non-luoghi: erano manifestazioni di massa che in movimento
percorrevano ed occupavano piazze e territori. Così la metropoli cominciò ad
essere ricostruita da un’alleanza strana: operai di fabbrica e proletari
metropolitani. Qui cominciammo a vedere quanto fosse potente questa
alleanza.

Alla base di queste esperienze politiche stava anche un altro e più ampio
esperimento teorico. Si cominciava infatti, dall’inizio degli anni Settanta,
a vedere come la metropoli non fosse solo invasa dalla mondializzazione a
partire dalla cima dei grattacieli, ma anche come essa fosse così costituita
dalle trasformazioni del lavoro che andavano realizzandosi. Alberto
Magnaghi, e i suoi compagni, pubblicarono negli anni Settanta, una
formidabile rivista (Quaderni del territorio) che mostrava, ad ogni suo
numero in maniera più convincente, come il capitale stesse investendo la
città, trasformando ogni via in un flusso produttivo di merci. La fabbrica
si era dunque stesa alla e sulla società: questo era evidente. Ma
altrettanto evidente era che questo investimento produttivo della città
modificava radicalmente lo scontro di classe.



5. Polizia e guerra.

È negli anni Novanta che la grande trasformazione dei rapporti produttivi,
che investono le metropoli, giunge al limite quantitativa, configurando una
nuova fase. La ricomposizione capitalistica della città, meglio, della
metropoli, si dà in tutta la complessità della nuova configurazione dei
rapporti di forza nell’Impero. È stato Mike Davis che, per primo, ci ha dato
una raffigurazione appropriata dei fenomeni caratteristici della metropoli
postmoderna. L’erezione di muri a limitare zone intransitabili dai poveri,
la definizione di spazi da suburra o ghetto dove i disperati della terra
potessero accumularsi, il disciplinamento delle linee di scorrimento e di
controllo che tenessero ordine, una preventiva analisi e pratica di
contenimento e di inseguimento dell’eventuali interruzioni del ciclo: oggi,
nella letteratura imperiale, quando si parla della continuità fra guerra e
polizia globali, quello che si dimentica di dire è che le tecniche continue
ed omogenee di guerra e polizia sono state inventate nella metropoli.
"Tolleranza zero" è diventata una parola d’ordine, meglio, il dispositivo di
prevenzione che investe strati sociali interi, pur accanendosi sui singoli
refrattari o esclusi. Il colore della razza o l’abito religioso, i costumi
di vita o la diversità di ceto, vengono, di volta in volta, assunti come
elementi che definiscono lo zoning repressivo all’interno della metropoli.
La metropoli è costruita su questi dispositivi. Come dicevamo a proposito
del lavoro della Sassen, le dimensioni spaziali, larghezza ed altezza, degli
edifici e degli spazi pubblici, sono completamente subordinati alla logica
del controllo. Questo laddove è possibile: laddove invece il capitale
immobiliare determina rendite troppo alte da poter essere piegati a
strumenti di controllo diretto, attraverso l’applicazione di processi
urbanistici pesanti, il paesaggio metropolitano viene coperto da reti di
controllo elettronico, e percorso, e scavato, da rappresentazioni di
pericolo che televisioni o elicotteri disegnano. Tra poco su ogni città si
addenseranno quegli strumenti automatici di controllo, aerei senza pilota,
cloni polizieschi che gli eserciti stanno normalmente utilizzando nelle
guerre. Presto le recinzioni e le zone rosse saranno stabilite sulla logica
dei voli di controllo: l’urbanistica dovrà interiorizzare le forme del
controllo a partire da una globalità aerea, presupposta alla libertà di
sviluppare spazi e società. È evidente che, raccontando questo, noi
esasperiamo alcune linee di tendenza che sono comunque limitate e
rappresentano solo una parte dello sviluppo metropolitano. Infatti, anche
qui (come nella teoria della guerra) l’enorme capacità di sviluppare
violenza da parte del potere, la così detta asimmetria totale, genera
risposte adeguate: il fantasma di Davide contro la realtà di Golia. Allo
stesso modo dunque la pianificazione del controllo sulla città, la
"tolleranza zero", producono nuove forme di resistenza. La rete
metropolitana è continuamente interrotta, talora rovesciata, da reti di
resistenza. La ricomposizione capitalistica della metropoli costruisce
tracce di ricomposizione per la moltitudine. Il fatto è che, per darsi, il
controllo deve esso stesso riconoscere, o addirittura costruire, degli
schemi transindividuali di cittadinanza. Tutta la sociologia urbana, dalla
Scuola di Chicago ai nostri giorni, sa che anche dentro un quadro di
individualismo estremo, i concetti e gli schemi di interpretazione devono
assumere dimensioni transindividuali, quasi comunitarie. È allo sviluppo di
queste forme di vita che l’analisi deve applicarsi. Si scopriranno così,
nella metropoli, spazi definiti, localizzazioni determinate dei movimenti
della moltitudine. Determinazioni spaziali e temporali dell’habitat e del
salario (consumo), si ritrovano a disegnare i contorni dei quartieri e a
caratterizzare i comportamenti delle popolazioni. La guerra come
legittimazione dell’ordine, la polizia come strumento dell’ordine - queste
potenze che si sono assunte una funzione costituente nella metropoli,
sostituendosi ai cittadini e ai movimenti - bene, esse non riescono a
passare. Di nuovo l’analisi della metropoli rinvia qui alla percezione
dell’eccedenza di valore che è prodotta dalla cooperazione del lavoro
immateriale. La crisi della metropoli è quindi spostata molto in avanti.



6. Costruire lo sciopero metropolitano.

Mi raccontano che a Siviglia, quando lo "sciopero generalizzato" è stato
lanciato - era uno sciopero di 24 ore - nella notte, in tutti i quartieri,
si sono formate ronde che a partire dalla mezzanotte hanno bloccato i
trasporti, hanno chiuso le boites de nuit, hanno comunicato alla città
l’urgenza della lotta. E questo è durato, con una mobilitazione generale sul
territorio metropolitano, concentratasi nel pomeriggio nelle grandi
manifestazioni di massa, durante tutta la giornata. Ecco un buon esempio di
gestione dello sciopero generalizzato. é uno sciopero metropolitano nel
quale si incontrano, durante le 24 ore della giornata lavorativa, i vari
spezzoni del lavoro sociale. Eppure, tutto questo, questo formidabile
movimento politico, non sembra sufficiente a caratterizzare lo "sciopero
generalizzato". Abbiamo bisogno di un approfondimento più ampio, di
un’analisi specifica di ogni passaggio e/o movimento di ricomposizione, di
ogni momento di lotta che possa confluire nella costruzione dello sciopero
sociale. Perché diciamo questo? Perché consideriamo lo sciopero
metropolitano come forma specifica di ricomposizione della moltitudine nella
metropoli. Lo sciopero metropolitano non è la socializzazione dello sciopero
operaio: é una nuova forma di contropotere. Come esso agisca nel tempo e
nello spazio, non lo sappiamo ancora. Quello che sappiamo è che non sarà una
sociologia funzionalista, una di quelle che mette insieme i vari spezzoni
del ricomporsi sociale del lavoro sotto il controllo capitalistico, a
poterci disegnare lo sciopero metropolitano. L’incontro, lo scontro,
l’incastrarsi e il muoversi in avanti dei vari strati della moltitudine
metropolitana non possono infatti essere indicati se non come costruzioni
(nelle lotte) di movimenti di potenza. Ma su cosa il movimento diviene
capacità di potenza dispiegata? Per noi la risposta non allude certo alla
presa del Palazzo d’inverno. Le rivolte metropolitane non si pongono il
problema di sostituire il sindaco: esse esprimono nuove forme di democrazia,
schemi rovesciati rispetto a quelli del controllo della metropoli. La
rivolta metropolitana è sempre una rifondazione di città.



7. Ricostruire la metropoli.

Lo "sciopero generalizzato" deve dunque contenere in se stesso il
"delirante" progetto di ricostruire la metropoli. Che cosa vuol dire
ricostruire la metropoli? Significa ritrovare il comune, costruire
prossimità metropolitane. Abbiamo due figure che sono assolutamente
indicative di questo progetto, esse si pongono ai termini estremi di una
scala di comunanza: sono il pompiere e l’immigrato. Il pompiere rappresenta
il comune come sicurezza, come ricorso di tutti in caso di pericolo, come
costruttore dell’immaginazione comune dei bambini; l’immigrato è l’uomo
necessario a dar colore alla metropoli oltre che a dare senso alla
solidarietà. Il pompiere è il pericolo e l’immigrato è la speranza. Il
pompiere è l’insicurezza e l’immigrato è l’avvenire. Quando noi pensiamo
alla metropoli la pensiamo come una comunanza fisica che è ricchezza e
produzione di comunanza culturale. Nulla, come la metropoli, indica meglio e
di più il disegno di uno sviluppo sostenibile, sintesi di ecologia e
produzione, insomma, quadro biopolitico. Oggi, proprio in questo periodo,
stiamo subendo il peso di una serie di vecchi schemi, ignobili quanto
impotenti, della social democrazia, che ci dicono che la metropoli può
riprodursi solo se in essa sono introdotti degli ammortizzatori sociali che
servono a monetizzare (ed eventualmente a riparare) le ricadute drammatiche
dello sviluppo capitalistico. Politici e sindacati corrotti stanno trattando
sugli ammortizzatori... Noi pensiamo che la metropoli sia una risorsa, una
risorsa eccezionale ed eccessiva, anche quando la città è costituita da
favelas, da baracche, da caos. Alla metropoli non possono essere imposti né
schemi di ordine, prefigurati da un controllo onnipotente (dalla terra e dal
cielo attraverso guerra e polizia), né strutture di neutralizzazione
(repressione, ammortizzamento, ecc.) che si vogliono interne al tessuto
sociale. La metropoli è libera. La libertà della metropoli nasce nella
costruzione e ricostruzione che ogni giorno essa opera su se stessa e di se
stessa; lo "sciopero generalizzato" si inserisce in questo quadro. Esso è il
prolungamento, meglio la manifestazione, ovvero la rivelazione, di quanto
vive nel profondo della città. Probabilmente a Siviglia lo "sciopero
generalizzato" è stato anche questo, la scoperta di quell’altra società che
vive nella metropoli durante tutto il tempo della giornata lavorativa. Noi
non sappiamo se le cose siano davvero andate così: quello tuttavia che ci
interessa sottolineare è che lo "sciopero generalizzato" è una specie di
scavo radicale della vita della metropoli, della sua struttura produttiva,
del suo comune.

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