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Ciao errekappi, volevo proporvi qualche considerazione in merito a una questione che mi sembra di una certa rilevanza. Si tratta pero' di una rilevanza "teorica" e quindi anticipo fin d'ora che la chiacchierata non sara' semplice ne' piacevole. Quindi e' sconsigliata, come e' ormai tradizione, a chiunque non soffra di forme molto particolari di insonnia. Si tratta, in gran parte, di una risposta a una persona che legge rekombinant che mi chiedeva un parere su un libro in particolare.
Ho pensato, nel solito spirito, di condividere la nostra discussione con quelli di voi che ne avranno voglia.


Rattus

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Individuare alcuni elementi, chiamiamoli "tendenze", interne al dibattito scientifico-culturale nell'ambito (di cio' che rimane) della sinistra politica puo' risultare interessante e di qualche utilita'.
Qui vorrei soffermarmi su due testi che presentano significative affinita' e che ci offrono un'adeguata cornice ad un orientamento assai diffuso che si potrebbe definire naturalistico-utilitarista.
Sto parlando di "Una sinistra darwiniana" di Peter Singer, uscito nel 2000 per le Edizioni di Comunita', e di "Individualismo e Cooperazione" di Giovanni Jervis, pubblicato alla fine del 2002 da Laterza e il cui sottotitolo e' nientedimeno che "psicologia e politica".


Mentre il libro di Singer costituisce un "Manifesto" politico che si puo' leggere agevolmente in un paio d'ore, quello di Jervis, pur contenendo argomentazioni fondamentalmente simili, affronta un spettro teorico piu' vasto e articolato, con interessanti escursioni su problemi specifici come il ruolo della psicologia nella politica, l'evoluzione culturale dell'Italia, i problemi delle universita'locali e molto d'altro.

Si tratta comunque di lavori che ruotano intorno a una definizione di "natura umana" che risente fortemente del contributo dell'etologia e della biologia del comportamento. Una sorta di biologismo politico "temperato". In altri termini la versione soft del biologismo "mainstream" che ispira il neoliberismo.

Entrambi gli autori ci ricordano a piu' riprese, con toni dolenti, che una "natura umana" esiste e che non tenerne conto e' stato uno degli errori storici della cultura di sinistra.
Cosa, quest'ultima, che trovo in gran parte condivisibile, ma per ragioni assai diverse da quelle di Jervis e Singer.
Anzi ho l'impressione che l'operazione culturale e politica che Jervis e Singer tentano di compiere contenga alcuni errori concettuali e delle significative omissioni. E questo al di la' del fatto che il tono paternalistico con cui entrambi ci spiegano come va il mondo e perche' noi non l'abbiamo ancora capito puo' risultare fastidioso.


Intanto entrambi, per un malinteso molto diffuso, confondono l'antropocentrismo con la specificita' di homo sapiens. C'e' una differenza sostanziale tra il sostenere che siamo una specie "eletta" e il prendere atto del fatto che abbiamo delle peculiarita'specie-specifiche. Quest'ultima posizione mi sembra di buon senso, e' condivisa da studiosi di valore come Chomsky, e non implica in alcun modo un misconoscimento dei diritti degli animali ne' del ruolo che svolgono gli istinti nelle nostre scelte.

E' senz'altro vero che sia la teologia cristiana sia alcune interpretazioni del pensiero di Marx hanno favorito, per ragioni diverse, una visione antropocentrica. Su Rekombinant mi pare si sia discusso il ruolo svolto, per ragioni diverse, da Sartre e da Gramsci nel sostenere l'esistenza di una natura umana.

Ma questo non dovrebbe spingerci ad una confusione forse peggiore: quella che tende a far coincidere il desiderio di cambiare il mondo con l'analisi delle mutazioni antropologiche della nostra specie. Le due cose hanno punti in comune ma, come dimostra la storia, non necessariamente coincidono.
Se l'esperienza del collettivismo ha dimostrato senza ombra di equivoci che l'ipotesi di una natura umana cosi' variabile da risolversi come per magia nel nascente "uomo nuovo" al mutare dei rapporti di produzione e' stata una grossa cantonata, cio' non implica necessariamente la negazione di qualsiasi "mutazione" di tipo bioculturale nel corso della storia del mammifero verbalizzante.
Non c'e' nessuna ragione plausibile per sostenere che dal momento che il socialismo reale e' stato un inferno, allora la "natura umana" e' fissa e immutabile.


Del resto la facilita' con cui in passato personaggi come Engels cadevano nelle trappole del lamarkismo non si spiega con il prevalere di una visione antropocentrica, ma piuttosto con la varieta' dei fenomeni di mutazione culturale che era dato osservare nella nostra specie sia a uno sguardo diacronico che sincronico. In un senso molto preciso l'eredita' dei caratteri acquisiti, ove riferita alla nostra specie, e' un errore comprensibile per l'epoca. Certo piu' comprensibile delle teorie di un Cesare Lombroso.

Come ha dimostrato ampiamente Mc Luhan su un piano storico-sociologico la nostra specie e' in continua mutazione.
E il problema "scientifico" e psicologico di come queste mutazioni avvengano rimane in gran parte aperto.
L'errore dei marxisti non e' stato dunque quello di prendere atto di fenomeni di "mutazione" cognitiva della specie - che spesso, piaccia o no, si sono effettivamente intrecciati ai modi di produzione - ma e' stato casomai quello di pensare di poter "determinare" mutazioni genericamente "positive". Un errore, a ben guardare, della modernita' tutta. Ma se pensare di determinare e controllare fenomeni altamente complessi e' un errore questo non significa che i fenomeni complessi non avvengano.


Se si ammette l'esistenza di "mutazioni" cognitive di origine bioculturale, come l'avvento della scrittura o dell'alfabeto, e non si vuole lasciare al concetto astratto di "storia" l'unica possibilita' di spiegarle, si trattera' di studiare questi fenomeni su un piano scientifico. Una prospettiva, questa qui, delineata da Vygotskij e sviluppata, sia pure in modo parziale, da Luria attraverso il concetto di plasticita'del sistema nervoso.

E non e' che si debba considerare solo il percorso che va dall'invenzione della ruota alla fissione nucleare, ci sono ben altre mutazioni che "forzano" il determinismo biologico. Basti pensare, per fare un esempio di rilievo, al controllo delle nascite.
Come si fa a non comprendere che simili "privilegi" devono scaturire da proprieta' "specifiche" che altre specie non poessiedono ? Come si fa a non comprendere che queste possibilita' "alterano" in modo consistente le regole del determinismo biologico ?


Si badi: questa non e' una dichiarazione di superiorita'. Al contrario, qualora riuscissimo nella mirabile impresa di autoannientarci in tempi brevi (e senza distruggere il pianeta) la nostra specie risulterebbe uno dei piu' clamorosi "fiaschi" dell'evoluzione biologica.
Ma appunto per questo scienziati e "naturalisti" di sinistra come Bateson o Varela non sono andati a cercare l'etica umana nei comportamenti prosociali delle lumache o dei pipistrelli.


Sulla questione del darwinismo poi, vale specificarlo, e' in corso negli Stati Uniti, da quasi trent'anni un dibattito di dimensioni enormi non privo asprezze. Un confronto che ha visto scontrarsi quello che e' stato a mio parere il maggiore studioso di Darwin, S. J. Gould, con i nuovi teorici del darwinismo sociale. Ora mentre Jervis ignora del tutto Gould, ma cita abbondantemente Dawkins, Singer entra direttamente nel coro dei denigratori del *vero* darwinismo di sinistra, accusando Richard Lewontin, uno dei maggiori biologi viventi, di confondere il materialismo storico con l'evoluzione biologica.
E comunque l'omissione dell'enorme contributo che Gould a portato alla teoria dell'evoluzione, la mancanza di qualsiasi riferimento a quel contributo - a meno di un anno dalla sua morte - suona come una scomunica che lascia intuire assai bene dove vanno realmente a parare questi libri.


D'altra parte chiunque abbia letto Gould o Lewontin non fa fatica a rendersi conto della differenza di profondita' che corre tra le loro analisi delle teorie evolutive e le comode semplificazioni che si incontrano in questo darwinismo sociale di ritorno.
E' poi veramente deprimente che personaggi appartenenti all'olimpo dell'intellettualita' mondiale passino il loro tempo a copiarsi l'un l'altro le pagine in cui si spiega come gli indigeni delle Samoa si facessero beffe di Margaret Mead raccontandogli che trombavano in gruppo al solo scopo di scucirgli specchietti e deodoranti. Una scoperta, questa qui, che deve affascinarli talmente tanto che Pinker, Singer e Jervis vi dedicano su ogni libro pagine e pagine.
Per carita': sara' senz'altro vero, ma questi argomenti non sono sufficienti di per se' stessi a inficiare il ruolo dei fattori sociali nello sviluppo cognitivo della specie umana. E soprattutto, spiace doverlo dire, l'insistenza con cui questi autori tornano su tali argomenti non solo rivela impressionanti vuoti di pensiero, ma lascia pensare che si tratti del tentativo di operare una vera e propria revisione storica. Naturalmente se la revisione fosse onesta si dovrebbero "confutare" seriamente Gould o Lewontin, cioe' la sinistra darwiniana, piuttosto che organizzare coretti di sghignazzi sugli errori della Mead.



Prendiamo un caso di cooperazione sociale come Linux e proviamo a spiegarla con i giochetti che tanto appassionano come il dilemma del prigioniero o "tit for tat" (occhio per occhio).
Un esempio interessante a riguardo viene dal famoso caso del documento Halloween:
Quando Microsoft decise di indagare la diffusione del software libero assegnando a un gruppo di studiosi l'incarico di analizzare il fenomeno, la spiegazione di un comportamento cooperativo cosi' dirompente venne affrontata in termini di "ego gratification".
Emergeva il dato imbarazzante, paradossale, contraddittorio, per cui la cooperazione destava "gratificazione". Agli sviluppatori di Linux veniva allora mossa l'accusa di essere portatori di quell'insieme di qualita' negative che vengono riassunte con l'abusato termine "narcisismo". Ma in realta' si intuiva nel testo degli esperti Microsoft la convinzione di trovarsi di fronte a un "tradimento" del patto collettivo su cui si fonda il liberismo. Viviamo in un patto fondato sul gioco degli interessi individuali. Dunque solo delle creature diaboliche possono "riuscire" a violarlo con successo. Che poi lo facessero nel segno del "piacere", fondamento di ogni utilitarismo, portava gli esperti verso sentimenti talmente contraddittori da spingerli a suggerire che doveva necessariamente trattarsi di un piacere "perversamente" individualista: l'ego gratification. Cosi' il liberalismo degli interessi individuali si deformava fino ad assumere l'aspetto di una "norma collettiva" mentre la cooperazione degli sviluppatori Linux diveniva un tratto diabolicamente "narcisistico" e colpevolmente individualista.


Non stupisce allora che nessuno, neanche gli esperti Microsoft, abbia tentato di spiegare la cooperazione intellettuale nel software libero attraverso micromodelli sperimentali come quelli che elenca Jervis alla fine del suo libro. La questione e' che, come ammette lo stesso Jervis, si tratta di un armamentario che non sempre e' all'altezza dei fenomeni che pretende di spiegare.
D'altra parte se si prende sul serio la critica chomskiana al behaviorismo e' praticamente impossibile tornare indietro e pretendere di ricondurre il comportamento umano a leggi formali cosi' anguste come la razionalita' limitata.


C'e' poi un altro problema: le teorie biologistiche delle scelte forniscono a chi amministra politica ed economia la convinzione di possedere i concetti definitivi in merito a come gli individui reagiranno a determinate circostanze. E tutto cio' che fuoriesce dalle relative campane di Gauss viene rimosso come rumore. Solo che "nei fatti", questa rimozione non viene risolta allo stesso modo in cui, calcolando una T di student o un modello Anova, si eliminano con un colpo di gomma i risultati che contraddicono le nostre ipotesi. Nei fatti quelle rapide cancellazioni si traducono in strutture totali, ghetti, sistemi di sorveglianza permanente.

Come scrive Zygmunt Bauman in merito alle nuove tipologie di devianti:
"Dal punto di vista del gioco al quale la maggioranza partecipa con entusiasmo essi sono consumisti difettosi, incompleti e impuri. Non rispondono agli stimoli del mercato nello stesso modo dei consumisti autentici e veraci: quel modo, infatti, presuppone il possesso di mezzi che essi non hanno (...). I centri commerciali e i supermercati si difendono dalla contaminazione dei consumisti difettosi installando a proprie spese reti di videocamere e sistemi di allarme, nonche' assumendo guardie armate che sorveglino gli ingressi".


E questo e' il vero inciampo in cui rischia di incorrere chi tenta di applicare alla politica e all'amministrazione i risultati delle ricerche sperimentali sui comportamenti di scelta (umani e animali).
Tutto il ragionamento si conforta di un elogio di un razionalismo efficientista che tuttavia non e' privo, spiace doverlo sottolineare, di qualche serio pericolo.
In un passo, per il resto condivisibile, sul tema delle intenzioni e sui risultati, Jervis si esprime in questo modo:


" e infine - e anche qui il 'forse' e' d'obbligo - la decisione di far piovere generose quantita' di alto esplosivo sui Paesi che ospitano i terroristi potrebbe produrre un risultato opposto a quello desiderato, cioe' moltiplicare in tutto il mondo il numero dei fanatici desiderosi di farsi saltare in aria per la loro causa".

Ora non credo sfugga come un simile argomento, sebbene corretto sul piano razionale e ampiamente condivisibile nel contenuto, meriti qualche postilla sul piano etico. L'ipotesi di far piovere generose quantita' di esplosivo sui "paesi canaglia" viene qui giudicata solo all'interno di una logica mezzi-fini. Se il risultato raggiunto fosse davvero quello di eliminare il terrorismo allora, a quel che pare, non ci sarebbero da parte di Jervis serio obiezioni ai bombardamenti indiscriminati.
Sfugge evidentemente che i bombardamenti a tappeto colpiscono persone civili che non e' legittimo confondere con i terroristi o con le persone che governano i paesi in cui vivono.
Jervis e' tutt'altro che un "idiota morale", e l'omissione deve spiegarsi con un sacrificio nel nome della coerenza e dell'economia del suo argomento.
Ma i rischi dell'enfasi sulle magnifiche sorti del pensiero razionale "moderno" - che di danni in politica ne ha fatti gia' abbastanza - si annidano in trappole di questo genere.


La morsa che tiene insieme responsabilita', enfasi sul comportamento, elogio dell'individualismo e studi sulla "razionalita' limitata" non puo' che risolversi in una forma di autoritarismo in cui il riconoscimento dei vantaggi della cooperazione suona come una faticosa concessione, piuttosto che come il punto di partenza per un ripensamento della politica e delle pratiche sociali. E Linux e' la piu' evidente dimostrazione che quest'ultima possibilita' non parte da un assunto moralistico ma da considerazioni empiriche.
Il tutto ovviamente per un'idea di sviluppo che non si risolva in uno sconfortante elogio dell'esistente. Vale ripeterlo: un altro mondo e' possibile.





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