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Lo scrittore austriaco, un viaggio in Kosovo e i «falsi preconcetti»

Peter Handke: pulizia etnica dolce contro i miei serbi

Lo scrittore austriaco è tornato in Kosovo per denunciare piccole 
vessazioni continue

Dal nostro inviato  Isabella Bossi Fedrigotti

CHAVILLE (Parigi) — Più che la casa di uno scrittore sembra la casa di 
un mago, di un erborista. Computer non se ne vedono, macchine da 
scrivere nemmeno, libri sì, ma non tantissimi, però erbe e funghi, 
secchi e freschi, di svariati tipi, in ogni piatto, su ogni vassoio, in 
ogni stanza. Funghi noti e meno noti, porcini e chiodini ma anche certi 
viscidi tipi nerastri che di solito navigano nelle minestre cinesi. Il 
padrone dei luoghi, lo scrittore austriaco Peter Handke, da molti anni 
trapiantato in questo piccolo centro tra Parigi e Versailles, come tutti 
i veri cercatori di funghi ha i suoi posti segreti dove li raccoglie, 
nei prati e nei boschi intorno a Chaville, a volte anche nel giardino di 
casa. Li fa seccare, li cucina e ne mangia tutti i giorni, dice, con il 
riso, con le verdure o con il brodo. Devono fargli bene perché nei suoi 
anni maturi — è del 1942 — ha il fisico asciutto e vigoroso di un 
montanaro, niente a che vedere, per esempio, con un topo di biblioteca.

Sul tavolo, tra funghi, erbe, fiori e sementi, c'è anche il suo 
nuovissimo libro, appena arrivato dalla casa editrice, Die Kuckucke von 
Velika Hoca, «I cuculi di Velika Hoca» (Suhrkamp, pp. 99, e 15,80), 
resoconto di un viaggio compiuto un anno fa in una minuscola enclave 
serba nel Kosovo indipendente, con visite casa per casa, incontri, 
conversazioni. «Volevo scrivere un reportage da vero giornalista — 
paradossalmente, dice, visto che dei giornalisti diffida per principio — 
ma a un certo punto ho smesso di fare domande e scrivere risposte e il 
libro è diventato qualcos'altro, una testimonianza, una riflessione».



Come tutti i suoi, il testo non è facilissimo da leggere, per il 
linguaggio ricco e complesso, per i numerosi collegamenti e riferimenti 
ad altri scritti, ad altre voci. In cambio l'eloquio è chiaro e facile, 
seppure esitante a volte, in cerca di massima precisione linguistica. Si 
era raccomandato, Handke, per una conversazione quieta, e insiste su 
questo punto. Ma a chi verrebbe in mente di alzare la voce, di 
questionare sopratono in questa silenziosa casa da alchimista eremita? 
Poi si capisce che è a se stesso che vorrebbe imporre la quiete, la 
misura, l'equilibrio, i toni bassi i quali, evidentemente, tendono a 
venirgli meno quando affronta i temi che da sempre gli fanno vedere 
rosso: le ingiustizie, le falsità, le prepotenze, le ipocrisie, le 
umiliazioni. Subito dopo, però, ironizza sulla sua foga che, sia pure 
quietamente, monta, e si giustifica chiamando in causa il suo sommo 
poeta: «Goethe diceva che senza passione non c'è poesia...».


Handke, si sa, è uno scrittore controverso che con voce decisamene 
isolata, dall'indomani del disfacimento jugoslavo, ha sempre difeso il 
diritto dei serbi contro i croati, contro i bosniaci, contro i kosovari, 
e per questo ha suscitato incomprensioni, antipatie, se non odi. «Non 
potevo e non posso sopportare i falsi preconcetti secondo i quali i 
criminali di guerra, gli aguzzini, i cecchini, i campi di concentramento 
erano sempre soltanto serbi, quando in realtà nessuno da nessuna parte 
si è risparmiato in torture, in ammazzamenti e pulizie etniche. Ma il 
coro degli inviati speciali era ed è sempre uniforme, come era ed è 
uniforme il coro dei politici stranieri in visita. A Velika Hoca, 80 
chilometri a Sud di Pristina, un tempo ricco sobborgo circondato da 
meravigliosi vigneti oggi secchi e abbandonati, dove ho intenzione di 
tornare presto per contare quanti dei 700 abitanti che c'erano un anno 
fa ci sono ancora, ci si può fare un'idea di come è andata e di come 
ancora va: pulizia etnica dolce, cioè, con piccole vessazioni continue, 
soprattutto economiche, da parte delle autorità kosovare, che rendono 
troppo difficile la sopravvivenza alla minoranza serba. Gabelle di ogni 
sorta, niente acqua per irrigare le vigne ma nemmeno per fare una 
doccia, corriere scarse e strapiene sulle quali non si trova posto. 
Intorno, gli antichi conventi ortodossi distrutti, le chiese bombardate 
che nessuno si sogna di ricostruire. In cambio, nel vicino paese di 
etnia albanese, una moschea nuova fiammante con cupola dorata. Cittadini 
di seconda classe, sono, insomma, diventati i serbi».


Aggiunge, però, lo scrittore, che non di guerra di religione si tratta, 
bensì di nazionalismi, anche se non riesce a scandalizzarsi per il fatto 
che, quando ci si trova nell'angustia e nella miseria se non nella 
persecuzione, ci si rivolga, ci si aggrappi, anzi, con forza alla 
propria religione. Quanto ai nazionalismi, dice, ormai si sa che 
emergono furibondi ogni volta che il dio del commercio comincia a 
traballare un poco. «Guardi cosa sta succedendo nella nostra Europa: 
sono cadute le frontiere ufficiali e sempre più ne sorgono di non 
ufficiali, invisibili, all'interno di ciascun Paese addirittura».

C'è qualcosa che uno scrittore possa fare per impedire queste chiusure? 
«Uno scrittore? Figuriamoci. Gli scrittori hanno fallito in pieno. 
Tant'è vero che chiamarsi scrittori è ormai quasi un insulto; io almeno 
mi porto addosso con notevole disagio l'imbarazzante qualifica. Scriveva 
Bernanos: "Ho sei figli, ma non sono sicuro di essere un padre. Sono 
stato in guerra quattro anni, ma ciò non fa di me un soldato". In questo 
mi sento in perfetta sintonia con lui. Certo, scrivere è il mio 
mestiere, anzi, per la precisione, sono uno che ogni tanto scrive e ciò 
giustifica la mia esistenza: se non lo facessi, agli occhi dei miei 
concittadini potrei passare facilmente per un fannullone, per uno che è 
perennemente in vacanza».


Che fare allora? «Resistere, è ovvio, è indispensabile resistere, anche 
se probabilmente non serve a nulla. Comunque io sono uno che può solo 
resistere in solitudine, non sono tipo da scendere in strada e 
partecipare a manifestazioni di massa». E in verità questo lo si capisce 
anche senza leggere una sola delle sue pagine, soltanto osservando la 
sua silenziosa casa da eremita, a quanto sembra non troppo frequentata 
nemmeno dalla famiglia, moglie e figlia che per lo più preferiscono 
stare in centro a Parigi, dove lui le raggiunge: «Quando mi invitano, 
però», precisa ironico.

Poi Handke torna a parlare dei «suoi» serbi di Velika Hoca che nel marzo 
di quattro anni fa hanno dovuto subire ogni sorta di violenze da parte 
dei nuovi signori della regione; che quando si ammalano, devono 
viaggiare per chilometri, fino a Mitrovica, se non vogliono rischiare di 
farsi trattare con voluta malagrazia in un ospedale kosovaro; che si 
riuniscono — quelli che hanno il tempo per farlo e cioè i vecchi — per 
bere caffè, giocare a carte e chiacchierare dentro e intorno a un 
container sarcasticamente battezzato Rambouillet, dalla località 
francese nella quale si tennero i cosiddetti colloqui di pace 
riguardanti ciò che restava della Jugoslavia. Ma dice anche, insistendo 
con forza, che non si possono fare confronti, che questa non è l'Irlanda 
del Nord come non è la Palestina, che al massimo vi corrono delle vaghe 
somiglianze e che pretendere di stabilire dei paralleli banalizzerebbe 
la tragedia di Velika Hoca come pure le altre due. E infine parla dei 
cuculi, delle centinaia di cuculi che ha visto e sentito nelle campagne 
intorno, tanto che ha dovuto farli figurare nel titolo del libro: 
«Sembra che tutti i cuculi spariti dal resto d'Europa siano finiti là 
dove continuano a prosperare allegramente, deponendo le loro uova 
accanto a quelle di altri uccelli. A me paiono la metafora di ciò che 
avviene nella realtà, con tutti quegli uccellacci d'Europa che là si 
arricchiscono...».


Per l'Austria, dove Handke continua ad andare regolarmente, anche per 
indurre la figlia diciassettenne a esercitarsi un po' nel tedesco, prova 
sempre sentimenti misti: «Mi piace stare a sentire le vecchie storie, i 
bei racconti suggestivi che si possono ascoltare soltanto in patria. Poi 
però mi capita di trovare una vecchia scritta su un fienile che in 70 
anni nessuno si è dato la pena di cancellare: "Ein Volk, ein Reich, ein 
Führer", e mi viene voglia di scappare ». Sono cose che lo scrittore non 
perdona, né serve tentare di consolarlo dicendogli che anche in Italia 
su qualche muro ancora sopravvive sbiadito un «Viva il Duce». «C'è un 
sinistro attaccamento ai cadaveri, in Austria, lo si è visto anche di 
recente, in Carinzia, dove un morto ha vinto le elezioni», e intende 
Haider naturalmente, il leader dell'ultradestra scomparso pochi mesi fa 
in un incidente, il cui partito ha trionfato alle recenti votazioni 
regionali. «...Anche se quel morto poi mi ha fatto pena per come l'hanno 
messo in piazza».

Proprio in Carinzia, la regione dove è nato, dovrà comunque tornare 
spesso nei prossimi tempi, perché ha in programma un libro sulla 
resistenza antinazista che vi si era sviluppata negli anni Trenta. «È il 
mio primo testo storico in assoluto, e dovrò fare molte ricerche». Per 
titolo ha scelto una frase del Macbeth pronunciata dal vecchio re: 
«Still storm», ancora tempesta. E dal tono con cui Handke lo dice, si 
capisce che è perfettamente in linea con Goethe, secondo il quale senza 
passione non ci può essere poesia.


17 marzo 2009


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