Articolo di capitale importanza: leggete, leggete...
Il mondo industriale sta finendo per termine della disponibilità di idrocarburi e noi stiamo qui a trastullarci con i SUV e a preoccuparci di chi vinca lo scudetto...
Non ci saranno più crescita e sviluppo, non perché qualcuno avrà deciso di fermarli per ragioni di compatibilità ambientale, ma perché non sarà più fisicamente possibile averli.
Passeremo alla storia come l'epoca più idiota di sempre: ci siamo presi una sbronza da energia facile, ma adesso la bottiglia è vuota e non esiste alcun barista che ce ne possa dare un'altra...
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Se il petrolio va a picco
«Per rimpiazzare greggio e gas naturale non c'è nulla sulla terra». Parla l'astrofisico Di Fazio
Francesco Piccioni

Alberto Di Fazio è astrofisico teorico presso l'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf), membro della Commissione Nazionale Cnr/Igbp (Programma Internazionale Geosfera-Biosfera), responsabile italiano del Progetto Igbp/Aimes (Analysis, Integration, and Modeling of the Earth System), presidente Global Dynamics Institute, accreditato presso la Conferenza delle Parti sotto la Unfccc (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici).

Il petrolio è aumentato del 500 per cento in sei anni, mentre la produzione è di fatto stabile da tre. Cosa sta succedendo?
Non si può più fare quello che si è fatto per oltre 100 anni: pompare sempre di più moltiplicando i pozzi. Su più di 90 paesi produttori, 62 hanno raggiunto il «picco» e sono quindi in calo; quelli che non l'hanno raggiunto - come l'Arabia Saudita e altri minori - non riescono ad aumentare l'estrazione in misura sufficiente a compensare. Gli Stati uniti hanno «piccato» per primi nel 1970, dopo aver «carburato» col petrolio due guerre mondiali e un grande sviluppo economico. Il Venezuela ha piccato nel '70, così come la Libia; l'Iran nel '74. Gran Bretagna e Novegia tra il '99 e il 2001. La Russia lo aveva fatto una prima volta per motivi politici (il crollo dell'Urss), poi si è ripresa ma ha piccato di nuovo nel 2007, senza peraltro mai raggiungere il livello precedente. Di conseguenza, l'offerta è praticamente stabile - tra 86 e 87 milioni di barili al giorno (mbg) - mentre la domanda cresce rapidamente. Perciò il prezzo non può che aumentare.
Eppure le compagnie petrolifere rispondono che anni di prezzo troppo basso hanno disincentivato nuove esplorazioni.
Sono dichiarazioni di natura politica. Se ascoltiamo geologi o ingegneri che lavorano per conto di queste compagnie capiamo che c'è stato tutto il tempo - 20 o 30 anni - per cercare ancora. Ci spiegano che la tecnologia esplorativa è migliorata di un fattore 500 o 600 rispetto al 1963, quando venne raggiunto il «picco» delle scoperte. Si utilizzano satelliti, strutture a ologramma, infrarossi, cose che non ci sognavamo neppure. Negli Usa, tra il '70 e l'80, c'è stato un boom di trivellazioni, quadruplicando il numero dei pozzi. Ciò nonostante, in quella decade, la loro produzione è progressivamente calata. Non è mancata la ricerca, ma i risultati.
Sentiamo spesso di «grandi giacimenti» appena scoperti, come in Brasile o nell'Artico.
Quello in Brasile è stimato tra i 10 e i 20 miliardi di barili. E' «grande» per il Brasile, perché porterà lì ricchezza ed energia. Ma a livello mondiale, rispetto ai 1.000 miliardi di riserve dichiarate esistenti - la metà di quelle iniziali - questo giacimento sposta il «picco» di due o tre mesi. Quello sotto l'Artico non dovrebbe neppure avvicinarsi alle dimensioni di Ghawar in Arabia o di Cantarell in Messico. E in ogni caso, per poterlo sfruttare, sarebbe necessario un riscaldamento globale tale da sciogliere la calotta polare. Non proprio una cosa da augurarsi. Ci sarebbe bisogno di trovare subito, ma proprio subito, 2-300 miliardi di barili per spostare il «picco» di cinque o sei anni.
Quanto pesa il petrolio nel bilancio energetico globale? E si potrebbe sostituirlo, in modo credibile?
Il 70% del raffinato va in combustibili da trasporto (benzina, diesel, cherosene, ecc). Il 98% di questi combustibili viene dal petrolio; così come tra l'85% e il 90% dell'energia totale proviene dagli idrocarburi. Solo tra il 7 e l'8% viene dal nucleare. Il resto, pochissimo, dalle rinnovabili. Per rimpiazzare petrolio e gas naturale non c'è praticamente nulla, sulla terra. L'idrogeno non esiste in forma libera, ma va fabbricato impiegando più energia di quella resa poi disponibile. Per il carbone si parla di centinaia di anni, ma in realtà si tratta di un minerale a più bassa intensità di energia, che ne richiede molta già per l'estrazione. Il carbone realisticamente utilizzabile basterebbe per qualche decina di anni. Tra le «non rinnovabili» c'è anche l'uranio, su cui esiste una stima molto precisa di Rubbia e di David Goodstein (del Caltech): ne abbiamo per 20 anni da adesso. Usiamo 14 Terawatt di energia; a volerle fare col nucleare servirebbero 10-15.000 centrali in 20 anni. Una ogni giorno e mezzo! Anche dal punto di vista dei materiali (acciaio, cemento, ecc) è impossibile. Negli Usa ce ne sono 104 e in tutto il mondo poco più di 400. Il nucleare potrebbe essere al massimo un «ponte» a cavallo del picco del petrolio. Ma anche le rinnovabili lo sono. Per fare le pale eoliche o i pannelli solari bisogna andare a prendere l'alluminio, fare attività di miniera; e questa si fa con l'energia del petrolio, mica con pala e piccone. Ma dove sta tutto questo alluminio? Questo significa che dipendiamo dal petrolio anche per le rinnovabili.
Che cosa bisognerebbe fare, allora?
Tirare il freno a mano, conservare petrolio e gas rimanenti per fare queste benedette rinnovabili, finché è possibile. Anche la tecnologia proposta da Rubbia ha bisogno di energia da petrolio. Non possiamo fare le acciaierie con un'economia che va a legna. E nemmeno con l'energia nucleare, perché una centrale deve essere a temperatura moderata (2-300 gradi) altrimenti fonde il nocciolo. Noi potremmo concentrare quella metà di petrolio rimasta, risparmiando sui trasporti di merci voluttuarie e salvaguardando quelli «necessari». E dobbiamo tener conto che anche l'agricoltura, al 90%, dipende dal petrolio. Senza, la produzione agricola si ridurrebbe da 10 a 1.

Ma come sono conciliabili capitalismo e decrescita?
In nessuna maniera. Il capitalismo è fondato su un'equazione che è un esponenziale. Ogni incremento annuale è proporzionale a un certo coefficiente moltiplicato il capitale stesso. E' una curva che cresce sempre di più, come quella dell'interesse composto. Il capitalismo è reinvestimento e crescita. Ma non esiste un investitore che cerca di guadagnare meno di quel che investe. E quindi l'intervento pubblico sarà obbligatorio. Mi soprende che se ne cominci a rendere conto la destra, come fa Tremonti nel suo ultimo libro, dove dice apertamente che il mercato non si può più regolare da solo. Mi sorprende che non lo dica invece più la sinistra. Si capisce ormai che è in arrivo una crisi peggiore del '29, ma non si dice il perché. Questa è in realtà più grave, perché nel '29 si era partiti da una bolla speculativa temporanea. Qui avviene per un fatto naturale, geologico. Finiti petrolio, gas e carbone, nessuno ce li rimette più.

Tutto questo era già stato anticipato dal Club di Roma, addirittura nel 1972. Poi non si è fatto nulla. Quelle previsioni furono definite ad un certo punto sbagliate. Come stanno adesso le cose?
Alcuni governi, come Gran Bretagna e Usa, hanno costruito delle task force interministeriali per gettare fumo. Hanno prodotto libri per dire che non era vero, ovviamente senza alcun fondamento scientifico. Il Club prevedeva la crisi economica mondiale nel 2020-2030, il crollo della produzione agricola nello stesso periodo, il calo della produzione di greggio e gas naturale (ma non l'«esaurimento»!), e il picco della popolazione globale un po' più in là nel tempo, nel 2040-50. Sulla popolazione ci hanno preso in pieno: 6 miliardi di persone nel 2000 e così è andata. Sulla crisi industriale, mi sembra proprio che ci stiamo arrivando. Sulla produzione agricola ci siamo già: il prodotto agricolo pro capite ha cominciato a flettere nel '98, ora anche quello totale. Basta guardare i grafici da loro prodotti nel '72, nel '92 e poi ancora nel 2002 per vedere che in tutte e tre le previsioni si calcolava che le risorse nel 2000 sarebbero state consumate per un quarto e quindi, sapendo che il «picco» si colloca sulla metà, invitavano ad agire in tempo. Semmai i loro calcoli sono stati fin troppo ottimistici, visto che siamo sul «picco» già ora invece che nella terza decade di questo secolo. Loro speravano che il sistema avrebbe reagito subito alla scarsità a alle crisi locali, riallocando nella maniera più saggia le risorse. E invece vediamo che persino il protocollo di Kyoto - un puro esperimento di riduzione delle emissioni del 5% (mentre servirebbe l'80%) - è rimasto lettera morta. Il modello, infine, era superottimistico perché non prevedeva né guerre né conflitti sociali di grande ampiezza. E invece, oltre quelle già avvenute o in atto, c'è una pletora di analisti che ci mostrano come altre se ne stiano preparando. E più violente delle attuali.

commento
Greggio e capitale, togli il «turbo» dal motore
Tommaso De Berlanga

Un solo barile di petrolio - 159 litri circa - contiene la stessa energia spesa in 25.000 ore di lavoro muscolare umano, l'equivalente di 12 persone al lavoro per un anno. In più, è ricco di elementi chimici fondamentali per l'industria farmaceutica e dei fertilizzanti; è la base della plastica e di mille altri componenti costitutivi del mondo contemporaneo. E fin qui è stato praticamente gratis. Non c'è infatti paragone tra quel che viene pagato il lavoro umano, anche nel più povero dei paesi del mondo, e il prezzo di un barile di greggio. C'è un esempio, fatto da alcuni scienziati, che chiarisce il concetto. «Riempite la vostra macchina di amici e qualche borsone, partite e andate finché non avrete consumato un euro di benzina, ossia 7-8 chilometri. Andate a Dacca e chiedete a un portatore di risciò di fare lo stesso lavoro per lo stesso prezzo. Poi cominciate a correre».
Si può affermare senza tema di smentita che il greggio abbia rappresentato per un secolo il vero e proprio «turbo» applicato al motore del capitalismo, quello che gli ha permesso di realizzare risultati altrimenti inconcepibili. La rivoluzione industriale basata sul carbone aveva fatto raddoppiare la produzione e perciò anche la popolazione umana; il petrolio ha moltiplicato per 10 quelle cifre. Nessuna organizzazione del lavoro, neppure la più scientifica e dittatoriale, avrebbe potuto conseguire lo stesso risultato, senza questa fonte di energia di fatto gratuita.
Se hanno ragione gli scienziati che studiano il «peak oil» - l'unica incognita nei loro calcoli è rappresentata dalla quantità delle riserve ufficiali (in genere un segreto di stato, quasi sempre con dati sovrastimati) - questo «turbo» sta per fondere. Dopo il «picco» l'estrazione di greggio comincerà a scendere, rendendo impossibile non solo la «crescita» ma persino il mantenimento dell'attuale struttura dei consumi. Siamo incerti insomma solo sul «quando» ciò avverrà, non sul «se». La stessa Agenzia internazionale dell'energia, dipendente dall'Ocse, ipotizza il drammatico momento di svolta nel 2013. Nel frattempo, prevede una carenza del 10% dell'offerta rispetto alla domanda entro pochi anni. Domattina, in pratica.
I principali governi mondiali sono quindi più che informati. Ma non si ha notizia di un qualche «piano» per affrontare l' incipiente emergenza. Un problema di queste dimensioni, che mette in discussione l'esistenza stessa della civiltà fin qui raggiunta, nonché la vita immediata della stragrande maggioranza della popolazione globale, richiederebbe - secondo logica - quantomeno un «governo mondiale» e un'infinita capacità di cooperazione. Sogni proibiti, in un mondo condannato a morte dall'imperativo multipartisan della «competitività»: tra imprese (e relativi lavoratori), filiere, paesi, continenti. Una «competizione di tutti contro tutti» che ci pone già oltre la fine della (seconda) globalizzazione. E che prepara solo conflitti. Chi aveva più informazioni e potenza militare - gli Usa - è già corso all'accaparramento delle risorse strategiche residue, conquistando (difficoltosamente) l'Iraq e presidiando il Golfo (il 65% delle riserve conosciute). Gli altri si arrangino.
A lasciar fare al mercato, insomma, la fine è nota. Una sinistra degna di questo nome avrebbe un terreno sconfinato su cui lavorare e ricostruire un senso.

da "il manifesto", 25-V-08

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