DIR="LTR">

Occasioni di libertà

Si è susseguita negli ultimi mesi, in Europa e negli Stati Uniti, una serie di blackout. Secondo l’interpretazione dei tecnici più avvertiti questi eventi possono essere letti come momenti di rottura di un sistema in equilibrio. Ne parliamo con Giulio Giorello, filosofo della scienza.

Si può parlare, secondo lei, di “equilibrio di sistema” a livello europeo e globale?

Tenderei a ridimensionare un po’ una concezione eccessivamente sistemica. Più semplicemente direi che il tipo di connessione presente nella fornitura di energia è proprio quel tipo di connessione che i matematici chiamano “fortemente sensibile alle condizioni iniziali”. È sufficiente, per esempio, che cada un albero sopra un pilone perché la connessione salti. In questo senso il sistema connettivo è un sistema fragile: una piccola causa provoca un grande effetto. Tuttavia non mi sembra ancora che questo tipo di patologia sia mortale: è un significativo sintomo d’allarme.

A partire dal cinque-seicento, ovvero a partire dalla riflessione cartesiana e dalla teoria della fisica newtoniana, si definisce per la prima volta un’idea di scienza. Tale idea di scienza diviene a sua volta costitutiva di una concezione di modernità fondata sull’intreccio tra sviluppo tecnologico e sviluppo economico, tramite cui si delinea anche un nuovo rapporto con le risorse ambientali. Nel novecento quest’idea di modernità entra in crisi. Si può parlare a tal proposito di un “passaggio di paradigma”?

L’opera di Renè Descartes rappresenta certamente uno dei punti alti dell’inizio di quel processo che noi chiamiamo modernità. Bisogna però tener presente che la modernità non è un blocco monolitico che evolve a partire da un nucleo ma è un insieme di tendenze contrastanti. Newton non viene semplicemente dopo Cartesio, Newton si serve di pezzi del cartasianesimo per fare a pezzi Cartesio, volendo usare un gioco di parole. Ciò dimostra che ci sono elementi di conflittualità interni alla stessa impresa scientifico-tecnica. Non penso minimamente che questa conflittualità interna sia un fattore negativo, tanto più che stiamo parlando di conflittualità tra idee e non tra individui, cioè di un livello alto, non barbaro, del conflitto. Questo tipo di conflittualità, che rappresenta la molla stessa della crescita della conoscenza scientifica, è quindi una grande esperienza di libertà. Da questo punto di vista la dinamica scientifica è una dinamica estremamente ricca anche nei suoi momenti conflittuali, di cui forse sono una dimostrazione, a livello sociologico, le grandi controversie scientifiche. Queste non attraversano soltanto la fisica, ma attraversano anche altri contesti. Si pensi al grande dibattito in biologia sull’evoluzione, alla questione dello statuto della genetica, per non dire degli orizzonti che oggi si dischiudono con le biotecnologie. Se indaghiamo la struttura fine dell’impresa tecnico-scientifica ci rendiamo conto che questa non è l’imposizione di un modello unico, di un paradigma unico, ma è piuttosto un insieme di programmi e di progetti talvolta in forte conflitto tra loro. Questo elemento conflittuale dà all’impresa tecnico-scientifica il suo carattere di emancipazione, trasformando molte delle occasioni della tecnica in occasioni di libertà.

Non sempre, io credo, le strutture economico-sociali della modernità sono state all’altezza di questa sfida. è il motivo per cui in molti casi si producono ragioni di conflitto, questa volta effettivamente devastanti, tra le istituzioni o tra forme e modalità economico-politiche e impresa tecnico-scientifica. Basti pensare alla sconfitta, sul lungo periodo, dell’apparato di potere nei confronti dell’impresa tecnico-scientifica nell’ormai disciolta Unione Sovietica. Per venire a una situazione più vicina, pensiamo al carattere in molti casi arcaico delle risposte che, alle sfide della scienza, fornisce la Chiesa Cattolica Romana, soprattutto per quanto riguarda la sperimentazione nel contesto della biologia, a certe possibilità dischiuse oggi dalla medicina, al dibattito sulle biotecnologie. Un’altra risposta fortemente inadeguata alle sfide delle biotecnologie viene da certe posizioni che assumono in modo vuoto e troppo radicale il cosiddetto principio di responsabilità; il quale spesso viene formulato come “bisogna stare attenti ad accettare ogni forma di tecnologia fino a che non si abbia la certezza che sia totalmente sicura”, portando la paralisi a qualunque livello pratico. Mi sembrano, infine, arretrate anche molte posizioni dei cosiddetti no-global. Naturalmente ognuno è libero di simpatizzare per ciascuna di queste posizioni.

Ogni grande tentativo di canalizzare l’impresa scientifica, pensiamo appunto al tentativo sovietico, ma anche a certe forme di controllo capitalistico, è destinato al fallimento. La sfida tecnico-scientifica è estremamente difficile proprio perché lo sviluppo dell’impresa tecnico-scientifica è imprevedibile. Se consideriamo la dimensione scientifica e tecnica come una dimensione di forte libertà, ne conseguono tutti i rischi ma anche tutte le chances che l’esperienza della libertà ci consente.

Questa premessa è importante per dire che, se un tipo di presa di coscienza seria può emergere dalla crisi energetica attuale, questa viene da un contesto che non rifiuti gli strumenti dell’analisi scientifica ma gli sappia usare in modo intelligente. In altri termini non ritengo che né la scienza né la tecnica siano responsabili dell’inquinamento, della crisi energetica o dell’impoverimento delle risorse; ritengo che responsabili di questi elementi di crisi siano invece scelte socio-politiche e socio-economiche ben definite. C’è chi dice che la scienza sia collusa col capitalismo, che la tecnologia sia la distruzione di tutte le nostre risorse, paventando soluzioni di tipo premoderno. Sinceramente non ho simpatie per il populismo spesso legato a questo tipo di soluzioni, che reputo sostanzialmente reazionarie.

Possiamo parlare di una miopia o di un’incapacità del sistema economico che non sembra in grado di tradurre certi risultati della ricerca scientifica in una corrispettiva produzione tecnologica?

Bisogna fare un passaggio preliminare e chiedersi cosa significa parlare di “sistema economico”; probabilmente si tratta di una realtà meno monolitica di quanto noi la immaginiamo abitualmente. Si prenda per esempio l’analisi, tracciata recentemente da Toni Negri, di quello che lui chiama Impero. L’impero nella concezione di Negri, se ben la intendo, è qualcosa di molto più stratificato di un’unità monolitica, che ammette o provoca in molti settori l’emergenza di moltitudini intelligenti capaci di contrastare una tendenza all’omogeneizzazione imposta da un centro, sempre che tale centro esista.

Piuttosto che di sistema parlerei quindi di un insieme di realtà complesso e variegato. Realtà come quelle americane, dove prevalgono gli Stati Uniti, quelle europee, dove non si sa chi prevalga (la sfida dell’ultima guerra nel mondo pone la sensatezza di questo dubbio), il nostro piccolo paese italiano. Ebbene tutte queste sono realtà estremamente diverse tra loro. Tra di esse intercorrono certamente moltissimi vincoli che superano i localismi, i confini degli stati nazionali, e addirittura entità in via di formazione come la nuova Europa. Il riconoscimento di questi caratteri è appunto ciò che ci fa parlare di globalizzazione; tuttavia all’interno di questi permane un insieme di differenze estremamente forte. Un panorama in cui differenza e ripetizione si intersecano in un gioco molto complesso e molto sfumato. Proprio questo gioco di sfumature dà ancora un senso a un’azione politica nell’accezione migliore del termine, senza di cui non ci sarebbero stati fenomeni come la resistenza democratica al G8 di Genova

All’interno di questo panorama che lei ha descritto come globale e frastagliato, ricco di differenze e di conflittualità tra gli attori sociali, economici e politici che vi interagiscono è possibile pensare a un nuovo equilibrio tra “mondo della scienza” e “mondo della vita”, e quindi anche alla “questione ambientale”, che tenga conto delle trasformazioni sociali e materiali espresse dal concetto di post-modernità?

Ritengo che non sia un caso che quella che viene chiamata “sensibilità ecologica” sia nata nel contesto dell’ottocento, prima ancora che il termine ecologia acquisisse il senso che ora vi attribuiamo, dall’intrecciarsi di due filoni. Un filone di cultura che chiamerei delle società democratiche, democratic societies (clubs di democrazia radicale diffusi nell’America di T. Jefferson, che ebbero poi alcuni corrispondenti sul continente europeo), di tipo ultra democratico e radicale che riscopre l’importanza del rapporto uomo-natura, interpretandolo in modo disincantato e facendone un elemento di esperienza di libertà. A questo movimento si lega un tipo di riflessione scientifica nella quale ha avuto un’enorme importanza la constatazione del carattere storico della natura: il cosmo ha una storia, il nostro sistema solare ha una storia, la terra ha una storia. Tale teoria può essere definita come teoria dell’evoluzione. Dall’incontro del pensiero scientifico ed evoluzionistico, attento soprattutto alla storicità della natura, con questa tendenza democratica, attenta ai diritti non solo nostri ma anche delle future generazioni, nasce la migliore coscienza ecologica. Questa storia affascinante è stata rintracciata da un bel libro di Enzo Tessi, pubblicato nella mia collana Scienze e Idee per Raffaello Cortina, che si chiama Fermare il tempo. Questo tipo di riflessione è anche quella che prospetta una nuova disciplina che i francesi chiamano eco-eco: economia ed ecologia insieme, che delinea quei modelli di equilibrio cui si faceva riferimento.

A partire da queste premesse, il termine postmoderno, che è un termine assai vasto, lo intendo come una capacità di riutilizzare il moderno per uscire dalle tragedie del moderno. Proprio uno dei grandi esploratori della postmodernità qual è Baumann ha messo in luce come in questo senso il termine postmoderno non perda la sua pregnanza, dal momento che non la perde nemmeno la modernità.

Sembra però che l’idea moderna di uno sviluppo illimitato, implicita nell’idea di progresso appartenente a quell’epoca, sia oggi entrata definitivamente in crisi.

Molte delle posizioni radicalmente democratiche della fine del settecento e inizio dell’ottocento non partono affatto da una premessa di progresso illimitato. Viene spesso imputato allo spirito illuminista l’ideale del progresso illimitato, che poi si traduce in una forma di dispotismo che finisce per divorare tutto, compreso se stesso. Io credo che non ci sia niente di più falso. Se ci sono dei pensatori che sono attenti alle risorse limitate che l’ambiente offre all’uomo, alle debolezze dei progetti umani, alla difficoltà di vivere in una natura che in molti casi ci è ostile, questo è proprio il miglior spirito illuminista. Basterebbe leggere Kant, Hume, le considerazioni sul terremoto di Lisbona di Voltaire, o le osservazioni di Diderot sulla fragilità umana, per accorgersi che questo tipo di illuminismo non corrisponde affatto a quel cliché che a volte viene presentato da critici interessati ad esaltare le religioni positive. È invece un pensiero attento ai limiti, ai vincoli, al problema di una natura ostile. Anche in molti pensatori dell’ottocento - ne cito due che possono apparire lontanissimi come Leopardi ed Engels, ma che già Sebastiano Timpanaro aveva messo in parallelo -, traspare una consapevolezza profonda della delicatezza del sistema ambientale e della fragilità dell’impresa umana. Questo è proprio il contrario del mito del progresso. Per non parlare di quella poesia meravigliosa che è la Ginestra…


a cura di I. A.

Rispondere a