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Il doppio legame del postfordismo

Abbagliati dai radicali rivolgimenti che si sono prodotti nelle tecnologie e nei modi di produrre nel corso degli ultimi venti o venticinque anni, molti sociologi si sono affannati a parlare della “fine del lavoro” nella società contemporanea (l’esempio più noto è forse il libro di Jeremy Rifkin dallo stesso titolo, La fine del lavoro appunto, uscito nel 1995: ma non è certo l’unico). Si tratta, naturalmente, di un abbaglio. Le forme del lavoro si sono trasformate con eccezionale rapidità a partire dalla fine degli anni settanta, non c’è dubbio: e queste trasformazioni hanno prodotto (anche per effetto delle tecnologie labour saving) una disoccupazione che non può più essere considerata congiunturale o contingente, ma pienamente strutturale. Ma ciò non significa affatto che il lavoro sia scomparso dalla nostra società: solo, avendo cambiato faccia e caratteristiche, il nostro sguardo non è più allenato a riconoscerlo. Noi cerchiamo i lavori tradizionali: quelli operai, quelli artigianali, quelli impiegatizi, e li vediamo ridursi e assottigliarsi. E anche quando li troviamo, li vediamo cambiati, stravolti da una nuova realtà produttiva a cui abbiamo dato il nome di “postfordismo” (o altri nomi a esso equivalenti). In compenso vediamo nascere (forse non in misura numerica tale da compensare la scomparsa delle vecchie) una serie di nuove attività, legate a questa realtà produttiva, che non siamo sempre in grado di comprendere, o a cui non ci sembra di poter dare un senso. Per poter fare qualunque discorso sul lavoro, per rivendicarlo o per rifiutarlo, per esaltarlo o per maledirlo, dobbiamo dunque preliminarmente comprendere come esso si è trasformato nel postfordismo.

Ci sono due aspetti di questa trasformazione a cui mi pare importante accennare, anche in questo breve spazio: il rapporto fra lavoro e tecnica, e quello fra lavoro materiale e lavoro immateriale. Cominciamo dal primo. Le vecchie macchine, tipiche del capitalismo classico (dalla manifattura sviluppata al fordismo), non sono certo scomparse: le macchine meccaniche ed elettromeccaniche che eravamo abituati a definire “produttive,” quelle che trasformavano materie prime e semilavorati in prodotti finiti, naturalmente esistono ancora. Sarebbe impossibile fare a meno di esse per produrre le merci materiali che ancora (anzi, sempre più) affollano la nostra vita quotidiana. Tuttavia il funzionamento di queste macchine dipende ormai sempre più da un tipo di macchine tutt’affatto diverso, quelle elettroniche e digitali, le quali quindi hanno acquistato – all’interno dello stesso processo produttivo – una centralità che le loro antenate non avevano. La differenza più importante fra dispositivi (elettro)meccanici e dispositivi digitali (che porta con sé un’analoga differenza nel lavoro che vi viene dispiegato) sta in questo: i primi sono rigidamente finalizzati a uno scopo, i secondi no. Le numerosissime macchine (automatizzate o no) che costituiscono, per esempio, una fabbrica di automobili sono state progettate e costruite per uno scopo determinato: produrre un particolare pezzo dell’automobile, o assemblare in un certo modo un certo numero di quei pezzi. Le “macchine” digitali funzionano in modo completamente diverso: esse sono dispositivi, per così dire “incompleti,” aperti a un insieme di possibilità, almeno parziamente, indefinite. Con lo stesso computer si può scrivere un testo, disegnare o ritoccare un’immagine, comporre o eseguire della musica, elaborare un insieme di buste paga, istruire e controllare un segmento più o meno grande di un processo produttivo materiale (cioè coordinare le prestazioni di un insieme di esseri umani e di macchine del primo tipo): tutto questo senza cambiare macchina, ma solamente utilizzando software diversi, cioè attivando delle azioni comunicative, linguistiche. Ecco ciò che è cambiato nel modo di produzione postfordista rispetto a quello fordista: la comunicazione, il linguaggio, è stato pienamente integrato nella produzione. Ed ecco come è cambiato il lavoro. Invece di un lavoro strumentale, rigidamente finalizzato, ristretto, il lavoro oggi ha una componente comunicativa e linguistica preponderante. Ma le attività linguistiche sono caratterizzate dal fatto che esse non producono effetti od oggetti capaci di sopravvivere all’atto linguistico: il loro prodotto coincide, per così dire, con l’attività stessa. E quindi, oggi, gran parte del lavoro non dà origine a un prodotto autonomo, che sopravviva alla prestazione lavorativa, ma coincide con quella prestazione: è “lavoro immateriale” che produce “merci immateriali,” è lavoro linguistico, comunicativo, relazionale, affettivo. E ciò lo si vede anche dalla centralità dell’industria “culturale” (cioè comunicativa: televisione, pubblicità, PR) nell’intero mondo produttivo.

L’“agire comunicativo,” che un tempo distingueva le attività “disinteressate” come la cultura e la politica, innerva oggi ogni settore della produzione. Ma ciò rischia di creare molti equivoci. Per esempio sul terreno dell’energia. Il lavoro immateriale e le macchine a esso collegate (computer e dispositivi digitali) consumano molta meno energia della produzione materiale. La centralità e la pervasività di questo lavoro possono quindi indurci a pensare (come anche una certa propaganda industriale non smette di insinuare) che la sua estensione possa risolvere – o almeno attenuare – il problema energetico. Come può farci pensare che si possa prescindere – visto che siamo sul terreno del linguaggio, del simbolico e dell’immaginario – dalla concreta esistenza dei corpi, dalla loro resistenza, dal sudore, dal dolore e dal piacere dei corpi: dolore e piacere sembrerebbero riservati solo alla dimensione “spirituale” dell’attività umana. Ma noi, cocciuti e testardi materialisti, sappiamo che lo “spirito” non può fare a meno della materia. Sappiamo che la dimensione immateriale del lavoro e della produzione serve solo per espandere, in ultima analisi, la produzione di oggetti, per accelerare la proliferazione di dispositivi materiali destinati a riprodurre, incanalare e distribuire i flussi oceanici di informazioni e di comunicazioni che arricchiscono, reggono e intasano la nostra vita quotidiana. E che il sogno dell’immaterialità, come quello di un mondo liberato dalla schiavitù della fatica, sono solo l’altra faccia di una medaglia ancora intessuta di comando, di controllo e di disuguaglianza, come in un mastodontico doppio legame. Perché così funziona – da sempre – il capitalismo: suscita energie e aspettative di cui ha bisogno per poter far funzionare il meccanismo dell’accumulazione e del profitto, ma subito dopo, e per la stessa ragione, deve frustrare quelle energie e disattendere quelle aspettative.

Antonio Caronia

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