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strategie per la comunicazione indipendente
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caro claudio,
ti ringrazio di aver circolato la mia traduzione dell'intervista a Virno pubblicata in francese sul numero 9 di Multitudes (tutto da leggere). La rivista mi ha gentilmente permesso di lavorare sull'originale in Italiano, che quindi vi mando.
riapre per me la questione se con classe operaia, proletariato, cognitariato, a che livello (filosofico, politico o perfino sociologico) nel nostro discorso si nomina o no la stessa moltitudine.
enjoy
ab
http://www.generation-online.org/t/translations.htm
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'The proper name does not designate an individual: it is on the contrary when the individual opens up to the multiplicities pervading him or her, at the outcome of the most severe operation of depersonalization, that he or she acquires his or her true proper name. The proper name is the instantaneous apprehension of a multiplicity." -D&G
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Moltitudine/classe operaia
di P. Virno


Vi sono alcune analogie e molte differenze tra la moltitudine contemporanea e la moltitudine studiata dai filosofi della politica seicentesca.
Agli albori della modernità, i "molti" coincidono con i cittadini delle repubbliche comunali anteriori alla nascita dei grandi Stati nazionali. Quei "molti" si avvalsero del "diritto di resistenza", dello ius resistentiae. Tale diritto non significa, banalmente, legittima difesa: è qualcosa di più fine e complicato. Il "diritto di resistenza" consiste nel far valere contro il potere centrale le prerogative di un singolo, di una comunità locale, di una associazione di mestiere, salvaguardando forme di vita già affermatesi a tutto tondo, proteggendo consuetudini già radicate. Si tratta dunque di difendere un che di positivo: è una violenza conservatrice (nel senso buono, nobile del termine). Forse lo ius resistentiae, ossia il diritto di proteggere qualcosa che già esiste e sembra degno di durare, è ciò che più accomuna la multitudo seicentesca alla moltitudine postfordista. Anche per quest'ultima, non si tratta certo di "prendere il potere", di costruire un nuovo Stato, un nuovo monopolio della decisione politica, ma di difendere esperienze plurali, embrioni di sfera pubblica non statale, forme di vita innovative. Non guerra civile, ma jus resistentiae.
Altro esempio. Tipico della moltitudine postfordista è di provocare il collasso della rappresentanza politica: non come gesto anarchico, ma come ricerca pacata e realistica di istituzioni politiche che eludano miti e riti della sovranità. Già Hobbes metteva in guardia contro la tendenza della moltitudine a dotarsi di organismi politici irregolari: "nient'altro che leghe o talvolta mere adunanze di gente prive di un'unione finalizzata a qualche disegno particolare o determinata da obbligazione degli uni verso gli altri" (Leviatano, cap. XXII). Ma è ovvio che la democrazia non rappresentativa basata sul general intellect ha tutt'altra portata: niente di interstiziale, marginale, residuale; piuttosto, la concreta appropriazione e riarticolazione del sapere/potere oggi congelato negli apparati amministrativi degli Stati.
E veniamo alla differenza capitale. La moltitudine contemporanea porta in sé la storia del capitalismo. Di più: essa fa tutt'uno con una classe operaia la cui materia prima è costituita dal sapere, dal linguaggio, dagli affetti.
Vorrei dissipare, per quanto posso, una illusione ottica. Si dice: la moltitudine segna la fine della classe operaia. Si dice: nell'universo dei "molti", non c'è più posto per le tute blu, tutte uguali, che fanno corpo tra loro, poco sensibili al caleidoscopio delle "differenze". Chi dice questo, sbaglia. Ed è un errore privo di fantasia: ogni vent'anni c'è chi annuncia la fine della classe operaia. Eppure quest'ultima non si identifica, né in Marx né nell'opinione di qualsiasi persona seria, con una specifica organizzazione del lavoro, uno specifico complesso di abitudini, una specifica mentalità. Classe operaia è un concetto teorico, non una foto-ricordo: indica il soggetto che produce plusvalore assoluto e relativo. La nozione di 'moltitudine' si contrappone a quella di 'popolo', non a quella di 'classe operaia'. Essere moltitudine non impedisce affatto di produrre plusvalore. E, d'altra parte, produrre plusvalore non implica affatto la necessità di essere politicamente "popolo".
Certo, allorché la classe operaia non è più popolo, ma moltitudine, cambiano moltissime cose: a cominciare dalle forme dell'organizzazione e del conflitto. Tutto si complica e diventa paradossale. Quanto sarebbe più semplice raccontarci che ora c'è la moltitudine, non più la classe operaia... Ma se si vuole semplicità a tutti i costi, basta scolarsi una bottiglia di vino rosso.
E poi, sia detto per inciso, vi sono brani dello stesso Marx in cui la classe operaia perde i tratti fisiognomici del "popolo" e acquista quelli della "moltitudine". Un esempio solo: si pensi all'ultimo capitolo del primo libro de Il Capitale, dove Marx analizza la condizione della classe operaia negli Stati Uniti (cap. XXV, "La moderna teoria della colonizzazione"). Ci sono, lì, grandi pagine sul West americano, sull'esodo, sull'iniziativa individuale dei "molti". Gli operai europei, scacciati dai loro paesi da epidemie, carestie, crisi economiche, vanno a lavorare nei grandi centri industriali della costa Est degli Usa. Ma attenzione: ci restano alcuni anni, soltanto alcuni anni. Poi disertano la fabbrica, inoltrandosi a Ovest, verso le terre libere. Il lavoro salariato, anziché ergastolo, si presenta come un episodio transitorio. Sia pure per un solo ventennio, i salariati ebbero la possibilità di seminare il disordine nelle ferree leggi del mercato del lavoro: abbandonando la propria condizione di partenza, determinarono la relativa scarsità di manodopera e, quindi, la lievitazione delle paghe. Marx, descrivendo questa situazione, offre un ritratto assai vivido di una classe operaia che è anche moltitudine.






At 07:49 26/02/2003, you wrote:
Car*,
una vecchia intervista:

Maurizio Lazzarato: Could you define the similarities and the differences between the notion of ‘multitude’ as it’s been conceived in the history of philosophy and the use that we make of it today? Is there continuity of rupture between the concept of ‘multitude’ and the concept of ‘working class’? Can the two concepts be integrated or do they refer to two ‘different politics’?

Paolo Virno: There are some analogies and many differences between the contemporary multitude and the multitude studied by the political philosophers of C17th.

At the dawn of modernity the ‘many’ coincided with the citizens of city state republics that preceded the birth of large Nation States. Those ‘many’ made use of the ‘right of resistance’, the ius resistentiae. Such right does not mean in the banal sense, legitimate defence: it is something more complex and refined. The ‘right of resistance’ consists in asserting the prerogatives of a singular, of a local community, of a craft guild, against the central power, whilst preserving forms of life that have already been affirmed, and protecting already entrenched habits. Thus it entails the defence of something positive: it is a conservative violence (in the good and noble sense of the term). Perhaps the ius resistentiae, i.e. the right to protect something that already exists and seems to deserve to last, is what brings most together the C17th multitudo and the post-fordist multitude. Also for the latter, it is surely not a question of ‘seizing the power’, of bui!
lding a new State or a new monopoly of political decision but rather of defending plural experiences, embryos of non-state public sphere and innovative forms of life. Not civil war, but ius resistentiae.


Another example. It is typical of the post-fordist multitude to provoke the collapse of political representation; not as an anarchist gesture, but as a realistic and quiet search for political institutions that elude the myths and rituals of sovereignty. Hobbes had already warned against the tendency for the multitude of adopting irregular political organisms; “nothing but leagues and often mere meetings of people lacking a unity geared towards some particular design or determined by obligation of one towards another.” (Leviathan Chapter 22). However it is obvious that non-representative democracy based on the general intellect has an entirely different significance: nothing interstitial, marginal or residual: rather the concrete appropriation and rearticulation of knowledge/power that is today congealed in the administrative apparatus of the States. But let us come to the capital distinction. The contemporary multitude carries in itself the history of capitalism. Moreover!
it is one and the same with the working class whose primary matter is constituted by knowledge, by language and by affects.


I would like to dispel an optical illusion. It is said: the multitude signals the end of the working class. It is said: in the universe of the ‘many’ there is no longer a place for blue overalls, that are all the same and constitute a body that is insensitive to the kaleidoscope of ‘differences’. Whoever says this is wrong. And it is an unimaginative mistake: every twenty years there is someone who declares the end of the working class. Even though the latter is, neither in Marx nor in the opinion of any serious person, identified with a specific organisation of labour, a specific complex of habits or a specific mentality. Working class is a theoretical concept, not a souvenir photo: it indicates the subject that produces absolute and relative surplus value. The notion of ‘multitude’ is counterpoised to that of ‘people’ rather than to that of the ‘working class’. Being multitude does not impede the production of surplus value. On the other hand, producing s!
urplus value does not at all entail the need to be politically a ‘people’.


Of course the moment the working class ceases to be a people and becomes a multitude many things change: starting from the forms of organisation and of conflict. All becomes complicated and gets paradoxical. How easier it would be to tell ourselves that now we have the multitude rather than the working class…but if simplicity is desired at all costs, we might as well down a bottle of red wine.

Moreover there are passages in Marx where the working class loses the physiognomic features of ‘people’ and acquires those of ‘multitude’. One example: let us think about the last chapter of the first volume of Das Kapital where Marx analyses the condition of the working class in the United States (Chapter 25 [sic], ‘The modern theory of colonisation’). There we find great pages on the American West, on exodus and on the individual initiative of the ‘many’. European workers driven out of their countries by epidemics, famine and economic crisis, go to labour in the large industrial centres on the east coast of the USA, mind you: they stay there for several years, only several years. Then they desert the factory and move towards the west, towards the free land. Wage labour presents itself as a transitional episode rather than a life sentence. Even if only for twenty years, wage labourers had the possibility of spreading disorder in the iron laws of the labour mar!
ket; by abandoning their own initial condition, they determined the relative scarcity of labour and thus wage increases. By describing this situation, Marx offers a vivid portrait of a working class that is also multitude.


published in the French journal Multitude n. 9 may/june 2002"


c/


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se arrivi ad un bivio...prendilo!!
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