Uno spunto per la riforma

Abstract: Che la riforma del partito politico sia ormai un’urgenza non più
rinviabile è un’affermazione largamente condivisa. I principali motivi della
sua crisi sono probabilmente da ricercarsi in una struttura piramidale ed
impermeabile, conforme ad un modo “fordista” di intendere l’attività
politica, del tutto antipodale a quello incarnato dai movimenti di questi
anni.
Come concepire la trasformazione? Da cosa incominciare?
Forse una via potrebbe essere quella di pensare ad un’”ibridazione” che
permetta a nuovi soggetti, che non appartengono al partito in senso stretto
o che militano in ambienti diversi, di poter accedere alla struttura e agli
incarichi del partito in modo più diretto. Potrebbe essere un modo per
cercare di curare la separatezza dalla società che, anche a sinistra,
affligge la politica e potrebbe anche essere uno strumento per incominciare
a superare alcuni dei sintomi cronici delle vecchia struttura novecentesca.



  -- Uno spunto per la riforma --

La trasformazione della struttura organizzativa del partito politico
moderno, tramontato il novecento, è senz'altro uno degli “appuntamenti” di
inizio secolo. La necessità di una riforma appare chiara e dovrebbe essere
una priorità largamente condivisa anche da chi non si sente adeguatamente
rappresentato da nessuno dei partiti della sinistra italiana (anzi, il
cambiamento dovrebbe parlare prima di tutto a loro).
“Autoriforma” è stata chiamata da Rifondazione nel suo ultimo congresso
nazionale con un termine che rimanda un po’ troppo ad una dimensione tutta
interna del mutamento necessario. Il tema era probabilmente fra i più
interessanti e “rifondatori” sollevati dalla fase congressuale ma,
contemporaneamente, anche uno dei più ignorati e, fino ad oggi, accantonati.
Le coordinate in cui immergere la discussione appaiono chiare; sono da un
lato le coordinate della globalizzazione, della trasformazione del modo di
produzione ed anche nello stesso processo di valorizzazione, dall’altro
quelle del movimento globale, delle nuove soggettività molecolari e di una
diversa concezione dell’agire politico. Il partito come lo conosciamo non
rientra in queste dimensioni, rimane “al di sopra o al di sotto” di quella
divisione dell’umanità “in due parti” con cui Luigi Pintor ci ha lasciato a
fare i conti. Rimane una struttura molare che maleodora ancora fortemente
del “partito come fabbrica” di Marco Revelli ma che al contempo non ha più
quel radicamento di massa che l’isomorfismo con l'organizzazione fordista
gli consentiva.
Negli ultimi anni qualche tentativo di rinnovamento si è visto: le
“autonomie” previste dallo statuto DS rappresentano uno spunto interessante
ma solo in rare eccezioni (come nel caso della Sinistra Ecologista) sono
riuscite ad uscire dallo schema del gruppo di lavoro nazionale e a non
scivolare in uno stile parasindacale, così il soggetto della “sinistra d’
alternativa”, con il suo omologo europeo, che rimanda ai contributi di fine
anni novanta di Mimmo Porcaro, non ha avuto fin’ora la fortuna sperata.  Vi
è però un rischio di avvitamento in questi tentativi che forse spiega il
loro parziale fallimento: si chiede che l'innovazione nasca dall'interno, si
chiede cioè che proprio quei soggetti che decidono di collocare la loro
militanza dentro la spazio politico del partito (e che quindi sono
generalmente meno sensibili alle sue insufficienze) diano impulso al
cambiamento, così appunto la riforma si vuole autoriforma.
Uno dei tratti distintivi della crisi della forma partito tradizionale è,
infatti, proprio la tendenza all'autoreferenzialità, quasi all'autismo, di
molte delle sue espressioni; è un'autoreferenzialità che riguarda tutto lo
spettro dell'azione politica. E’ un'autoreferenzialità che parla della
distanza del dibattito interno dal vivo delle questioni sociali,
dell'alterità della proposta politica rispetto alle richieste che provengono
dalle mobilitazioni come dei litigi per avanzare nella scala gerarchica del
microcosmo-partito e delle sezioni chiuse e polverose. Non è certo un
fenomeno isolato ma è un tutt'uno con la più generale tendenza
all'autonomizzazione della sfera politica e alla sua ”americanizzazione”, è
cioè un tutt'uno con quella crisi della politica che dominava incontrastata
fino all'emergere del movimento globale. Non si può, infatti, fingere che la
piena dei conflitti degli ultimi anni non abbia forzato alcune delle tante
inadeguatezze o almeno, mostrate possibili alternative, non abbia messo a
nudo molti dei limiti. Si tratta ora di mettere mano alla riorganizzazione
prima che un modello di partito inadatto contribuisca a “ridurre nei codici
del politicismo” le nuove soggettività che hanno agito in questi anni. Nel
fare ciò occorre avere sempre bene in mente che la struttura organizzativa
non è semplicemente uno strumento per promuovere una certa opzione politica
ma è prima di tutto uno degli elementi principali che tale opzione vanno a
delineare; una stretta relazione intercorre fra la forma del partito e
quella più generale della politica e quindi del proprio progetto: una
regolamentazione chiusa, autoreferenziale e piramidale corrisponde
perfettamente ad una politica di lobby, separata e presidenziale mentre un
regolamento che privilegi le relazioni e gli scambi con i soggetti attivi
sul territorio è tutt'uno con una politica permeata dai conflitti e dalle
sollecitazioni che vengono dalla società.
Quella che è qui riportata è soltanto una piccola idea che potrebbe essere
spesa e rimodulata in un più ampio e organico ridisegno organizzativo.
Si tratta, abbiamo osservato, di cercare uno strumento che consenta di
innescare un processo di continuo scambio tra la struttura del partito e ciò
che si muove fuori in modo che tale relazione non coinvolga solo aree
periferiche o marginali (o comunque particolari, come le organizzazioni
giovanili) ma che permetta a tutta la scala gerarchica di venire contaminata
e compromessa. Serve uno strumento che permetta di ledere quelle convenzioni
e quei meccanismi sclerotizzati che gestiscono i rapporti di potere
all'interno del partito, che inizi qui ed ora la riforma ma che al contempo
avvii un percorso permanente di trasformazione.
Un'idea potrebbe venire osservando la scelta delle candidature per le
elezioni degli enti locali e del parlamento. Spesso tale decisione avviene
in modo assolutamente centralizzato e ademocratico e quindi non può
rappresentare certo un modello, tuttavia a volte, quando le candidature
indipendenti non sono solo di immagine o pro-forma, si produce un
interessante risultato di “ibridazione”: accanto agli iscritti si
coinvolgono personalità anche di grande spessore e capacità, si colmano aree
di competenza “scoperte” e si convogliano energie e sensibilità differenti
da quelle plasmate dall'ambiente chiuso del partito; l'elezione di esterni,
in particolare se esponenti di gruppi o movimenti locali, è fonte di nuove
relazioni (e nuovi collateralismi) che contribuiscono al radicamento.
Si tratta di estrapolare gli aspetti positivi di questo approccio e cercare
di riprodurli nelle dinamiche interne. I vantaggi sono chiari: un meccanismo
che indirizzi la nomina di alcune figure chiave nel partito su coloro che,
pur trovandosi nel suo indotto politico, non ne siano formalmente aderenti e
collochino la loro militanza prevalentemente altrove, mette direttamente in
contatto la struttura con ciò che si trova fuori, permette di intaccare (non
solo nell'ambito cui si riferisce la nomina) i fenomeni di “carrierismo” e
consente, in qualche forma, di superare le empasse legate ad una discussione
interna ripetitiva e fossilizzata. Allo stesso tempo i meccanismi di
ibridazione potrebbero contribuire a mutare l'intera impostazione di chiusa
gerarchia locale e a far crescere invece un’idea intrinsecamente relazionale
dell’azione politica ed anche della propria identità.
E' necessario ovviamente individuare l'ambito e la dimensione corretti
all'interno di una regolamentazione completamente nuova. Si tratta cioè di
saper coniugare le esigenze di continuità politica ed anche di senso di
appartenenza con le necessità di apertura e di continua trasformazione.
Un esempio di applicazione, che potrebbe comunque vivere soltanto in un
quadro profondamente rinnovato, sarebbe quello della nomina esterna dei
segretari delle federazioni piccole e medie. La scelta dei dirigenti
(incluso il segretario) e la composizione degli organi di indirizzo politico
locali rimarrebbero così interne ma verrebbero affiancate da organismi
esecutivi e di direzione politica a breve termine ibridi. In questo modo le
scelte di lungo periodo continuerebbero ad essere ratificate in ultima
istanza dagli aderenti al partito strettamente intesi, ma potrebbero essere
articolate e rimodulate adattandosi rapidamente alle necessità ambientali.
Nella stessa ottica, per quanto riguarda la dimensione nazionale, sarebbe
naturale che strutture come le “autonomie” diessine (a cui si può aderire
senza tesserarsi al partito) sperimentassero meccanismi di simbiosi fra
“fuori” e “dentro” più radicali. La configurazione attuale ha infatti il
doppio rischio di dare luogo ad un clone mal riuscito (perché meno
integrato) delle commissioni nazionali e di “esternalizzare” una parte una
parte delle scelte politiche strategiche.
In ogni caso una riforma organica, comunque pensata, dovrà fare i conti con
un gran numero di insufficienze dell'attuale struttura: non potrà ad esempio
non tener conto della configurazione fortemente monosessuata dei partiti (e
quindi della loro proposta politica), dell'uso ampiamente inadeguato della
rete o dei limiti dell'esclusività della suddivisione territoriale. Caso per
caso sarà necessario cercare soluzioni mirate al problema e alla situazione
particolare; i meccanismi di ibridazione tuttavia potrebbero portare
benefici a molti degli ambiti “critici”: le reti sociali che hanno
costituito la struttura ossea del movimento globale sono spesso organizzati
su basi tematiche, usano la rete in modo innovativo e compiutamente
paritetico e, pur mantenendo un’innegabile selezione di genere negli organi
di rappresentanza, hanno già da tempo superato quella fase di preponderanza
maschile della militanza che ancora caratterizza i partiti della sinistra
italiana. C'è molto da imparare dunque non solo dalle parole d'ordine delle
nuove soggettività ma anche dalla loro organizzazione molecolare. La
struttura del partito deve contribuire, e non essere un ostacolo, a questo
processo di apprendimento.

giorgio ([EMAIL PROTECTED])

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