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Intro: il sapere come risorsa produttiva centrale

L'economia attuale mette a valore l'informazione e le conoscenze a tutti i
livelli. Perci, il controllo sulla distribuzione e l'innovazione del
sapere assume un ruolo primario. Attraverso di esso passa l'odierna
divisione del lavoro. L'impresa da un lato richiede forza lavoro dotata di
conoscenze, mentre dall'altro affossa il sistema universitario pubblico.
E' una contraddizione solo apparente: dal punto di vista dell'impresa i
saperi devono essere produttivi oggi, ma non devono sottrarre i lavoratori
alla precarietà. A questo scopo le riforme universitarie, pensate in
funzione del mercato, ostacolano la diffusione libera delle conoscenze che
consente al lavoratore di tenere il passo dell'innovazione, e la
irregimentano in un sistema di regole mercantili. Questo hanno fatto le
riforme dell'università degli anni 90, che hanno introdotto l'autonomia
finanziaria, il sistema dei crediti e gli attuali sistemi di valutazione
dell'università.

La diffusione e l'innovazione delle conoscenze deve essere svolta tra
ricercatori e studenti garantiti e non ricattabili, e perciò liberi di
condividere saperi

Le scoperte e le innovazioni non devono essere prodotte da ricercatori che
sopravvivono alla precarietà vendendole: a valutarle e valorizzarle
sarebbero, in maniera più o meno indiretta, le imprese, che preferiscono
allargare il precariato piuttosto che ridurlo. Con questo metro di
giudizio esse decidono i problemi da risolvere, i bisogni da soddisfare, i
consumi da introdurre per mezzo dell'innovazione. Le condizioni in cui la
ricerca viene svolta ne determinano quindi gli stessi contenuti. Quindi
fare ricerca con meno diritti non vuol dire farla meglio o peggio, ma
significa fare altro. L'innovazione deve essere invece il risultato di un
lavoro di ricerca tutelato e garantito: gli studenti e i ricercatori che
lo svolgono devono essere remunerati. Solo così potrà sfuggire alla
valutazione di tipo aziendale e non generare altra precarietà. Ogni forma
di precariato è quindi dannosa, e non può essere considerata in alcun modo
"naturale" o "necessaria".

La didattica universitaria deve diffondere saperi e incentivarne la libera
circolazione

Ogni forma di limitazione dell'accesso ai saperi va combattuta: dalle
tasse di iscrizione alle università alla proprietà intellettuale, e ai
brevetti. Le università, che oggi sono valutate sulla base dei brevetti
depositati e sulle interazioni con il settore privato, devono piuttosto
diventare luoghi di protezione dei saperi dalla proprietà intellettuale e
dalla valutazione commerciale ("crediti formativi" compresi). Per quanto
riguarda la diffusione delle conoscenze all'interno degli atenei, le
riforme universitarie della didattica vanno in senso opposto: le riforme,
in primo luogo l'applicazione dell'accordo di Bologna, aumentano piuttosto
le barriere per mezzo di obblighi di frequenza, crediti, tasse
d'iscrizione, selezione all'ingresso, tutoraggio individuale e valutazione
della didattica. Verso l'esterno degli atenei, proprietà intellettuale e
brevetti non stimolano ricerca e innovazione come si credeva in passato:
al contrario, ne distorcono la natura intrinsecamente collettiva.
Comunicazione, dibattito e scambio sono le regole fondamentali della
ricerca in ogni campo: la ricerca è un bene pubblico, o non è. Le
università devono quindi fornire gli strumenti che, come il copyleft
nell'informatica, proteggano e allarghino gli ambiti del sapere in cui la
proprietà privata è già stata abolita.

L'università deve diventare un centro di formazione permanente, poiché le
conoscenze sono produttive a tutti i livelli dell'organizzazione del
lavoro e durante tutta l'esistenza

La formazione permanente offerta oggi (gestita essenzialmente da imprese,
dalle corporate university ai corsi di formazione professionale) non fa
altro che riprodurre precarietà e ricattabilità, sia per le condizioni di
accesso a quel tipo di formazione che per la natura dei saperi insegnati.
L'università deve invece proporre un'idea nuova di formazione permanente,
che aumenti realmente l'autonomia di chi ne usufruisce e consenta, a chi
non accede a un reddito, di tornare a farlo con più diritti di prima. Per
far ciò, la formazione permanente dell'università futura dovrà
privilegiare la diffusione di saperi liberi: chi fruisce di tali
conoscenze viene inserito in un circolo virtuoso, in quanto il libero
accesso alle conoscenze (tradizionalmente inteso come un diritto del
consumatore: si pensi all'accesso a farmaci, musica o software) è una
forma di reddito indiretto, dunque un diritto del produttore. Per questo
motivo, l'università non va difesa come una cittadella chiusa: piuttosto,
deve aprirsi alla metropoli del precariato diffuso e lì cercare la sua
giustificazione sociale.

Studenti e ricercatori precari

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