Ciao
sulla scia della chiacchierata con Pirati e Posse_duti, io ho buttato giu' questi appunti, che sottoporrei al Manifesto: chissa' che non ci diano spazio?
Per alberto e conte: fwdate nei vostri giri (almeno alle donne...)?
Ditemi che ne pensate


Andrea

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Dopo la diffusione della legge delega sull'università del ministro
Moratti, si moltiplicano le proteste dei ricercatori e dei docenti,
colpiti duramente dalla precarizzazione del lavoro che introduce la
riforma. La "novità" dei ricercatori co.co.co. e dei professori a tempo
determinato, in realtà, sancisce l'esistente: già nel sistema attuale,
infatti, le assunzioni a tempo indeterminato dei ricercatori avvengono
con il contagocce e la stragrande maggioranza dei ricercatori vive
di contratti di brevissima scadenza.

L'attacco ai diritti che il governo Berlusconi sferra su più
fronti (dalle pensioni alla scuola) ha però creato nel paese un clima di
insoddisfazione intollerabile anche dal punto di vista del buon gusto,
che induce alla protesta persino le categorie più mansuete.
Così, finiscono per mobilitarsi, creare sigle, unirsi in girotondo
i precari peggio pagati e i baroni più panciuti, quelli che temono
ogni cambiamento per il timore di smarrire poteri costruiti con cura
certosina in decenni di riunioni, consigli, commissioni.
Nei laboratori non si contano più gli appelli in difesa della
ricerca pubblica, minata da una flessibilità di stampo aziendale, da
politiche per la formazione al ribasso e da finanziamenti pubblici
ridicoli, che le imprese non hanno mai compensato.

Tuttavia, indicare nel ministro Moratti il principale responsabile
dell'attuale situazione è disonesto, soprattutto se a farlo è chi ha
governato fino a tre anni fa. Difatti, il tormentone "double face"
dell'autonomia universitaria (da difendere o attaccare secondo la
moda) non è certo iniziato oggi, e già da anni i programmi di ricerca più finanziati sono quelli che dimostrano maggior spendibilità
commerciale, in termini di innovazione e di brevetti: basta leggere i
bandi per i finanziamenti europei per accorgersene.
Anche dal punto di vista degli studenti, la transizione europea verso
un'organizzazione universitaria di stampo anglosassone non è stata
decisa ieri ad Arcore ma a Bologna nel 1999, e la proliferazione di stage (rigorosamente non pagati) nelle aziende per gli studenti che
rimangono all'università oltre i tre anni del bachelor mostra quale
servizio l'università renda oggi alle aziende.
Se questo è il contesto, come stupirsi se anche i diritti dei
ricercatori vengono attaccati in nome dell'efficienza e della
flessibilità?


Le lotte che agitano accademia ed enti di ricerca non possono
dunque fermarsi in mezzo al guado, accettando la privatizzazione della
formazione e della ricerca solo finché tocca gli studenti e i
malati del terzo mondo, quelli che davvero pagano il prezzo dei
brevetti. La critica alle riforma in discussione oggi, per essere
onesta e coerente, dovrebbe riguardare anche le riforme degli anni
passati, osteggiate da movimenti studenteschi sempre più deboli (gli
studenti non sono più quelli di una volta, letteralmente) ma
caldeggiate anche da molto personale universitario di sinistra.
Occorre quindi rimettere in discussione del significato di università
"pubblica", ricerca "pubblica", sapere "pubblico": la difesa del
"pubblico" da parte dei ministri di vario colore, come si è
visto, ha significato in realtà una privatizzazione strisciante,
che ha introdotto mercato e precarietà senza leggi né deleghe.

Un servizio "pubblico" deve offrire diritti e garanzie sia a chi lo
produce o lo produrrà (nel caso, i ricercatori e gli studenti) che a chi
ne usufruisce, ovvero la società tutta (e non solo le aziende).
Sul tema delle garanzie per i ricercatori, occorre avere il coraggio
di entrare nei laboratori e, con un lavoro di inchiesta, verificare
quali siano le condizioni del lavoro di ricerca: si osserveranno
giovani studenti (dai laureandi ai dottorandi) che frequentano stage
nelle aziende, svolgono ricerca e assicurano la didattica, non
retribuiti o con salari miserrimi. E dei ricercatori, si è già detto.
Per ovviare a questa situazione, chi si oppone alla Moratti spesso
rivendica corporativamente il ruolo strategico della ricerca scientifica
per la competitività del sistema-paese. Ma così facendo dimentica che
proprio in nome della competitività vengono di solito aboliti i diritti
e le garanzie: accettarne la logica rifiutandone gli effetti non porterà
buoni frutti, in termini sindacali. Piuttosto, è auspicabile che i
ricercatori rifiutino il ruolo speciale che viene loro attribuito
(l'élite intellettuale), e interpretino la propria funzione sociale
alla stregua di altri precari, dai tranvieri agli operatori dei call
center, nell'economia attuale in cui la conoscenza è merce.

"Pubblico", poi, vuol dire a disposizione di tutti. Ciò collide con
l'impulso che ogni riforma universitaria e ogni ministro, da ultimo
Stanca, danno alla produzione di brevetti industriali da parte delle
aziende. Anche senza citare il genocidio farmaceutico, una letteratura
ormai ampia dimostra come brevettare la ricerca spesso la soffochi,
alzando i costi della partecipazione al dibattito scientifico. Già oggi
molti laboratori devono tener conto del costo dei brevetti da pagare al
momento di scegliere una linea di ricerca. Ma pochi tra gli attuali
difensori della ricerca pubblica si mossero, ad esempio, quando l'Europa
minacciava di estendere i brevetti al software, con la legge che portava
la firma dei laburisti. D'altronde, basta leggere le statistiche
disponibili in rete per rilevare che proprio negli enti in cui il
precariato è più diffuso (si veda l'esempio dell'Istituto Nazionale di
Fisica della Materia) ricerca pubblica e industria vanno a braccetto e i
brevetti fioccano, per quanto i numeri rimangano inferiori a quelli
statunitensi.

"Difendere la ricerca pubblica", lo slogan del momento, richiede una
nuova idea di ricerca pubblica, basata sulla circolazione delle
conoscenze e non sulla competizione per brevettarle. Mobilitarsi contro
la legge delega, dunque, potrebbe diventare un boomerang se significasse
difendere lo status quo, in cui le innovazioni morattiane sono già un
dato di fatto.

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