Grazie Andrea per la preziosa precisazione e scusate per la cifra incautamente sparata. Tuttavia, se la nozione di blocco sociale ha ancora un senso, è ipotizzabile pensare che gran parte dei 4 milioni e rotti di lavoratori indipendenti e dei loro familiari voterebbero NO (se vanno a votare): è assai probabile che un bottegaio e un libero professionista si vedano dalla parte dei piccoli imprenditori, piuttosto che dalla parte della sinistra (e neanche di tutta).
Certo la controffensiva vittoriosa sarebbe galvanizzante per tutti, precari e non, e già il referendum ha il grande merito di riportare i diritti del lavoro al centro dell'attenzione mediatico-politica. Attenzione, però: la vittoria sull'art.18 era già in tasca. E' sempre un rischio riaprire una partita già vinta. Se perdessimo, rischieremmo il totale ribaltamento di una situazione che si profilava favorevole. Rif.com ha scelto il fronte sbagliato per contrattaccare. Ricordate Zukov? Concentrare tutte le forze restanti nel punto più vulnerabile dell'avversario, spingerlo al combattimento in profondità, accerchiarlo costi quel che costi, tagliare le sue linee di rifornimento e infine distruggerlo. Insomma la strategia di Rif.com è quella di Zukov, o quella di Von Paulus che diede battaglia quanto ne poteva fare a meno, cadendo nella trappola fatale?
SI SI SI CLARO QUE SI  CHE VOTIAMO SI

At 12.31 22/01/03 +0200, you wrote:

Certo che in un paese con 5milioni di piccoli imprenditori la strada sembra ancora più in salita del referendum sulla scala mobile...


Rossana Rossanda nelle "Note a Margine" scrive che in Italia ci sono 4.800.000 piccole imprese. Alex dice che ci sono 5 milioni di piccoli impenditori. D'Alema dice che l'estensione dell'art.18 va a colpire anche un piccolo negozio a conduzione familiare (come se i piccoli negozi al dettaglio fossero piccole imprese).
Credo che al riguardo ci sia un  poco di disinformazione. Innanzitutto, coloro che non hanno un contratto di lavoro subordinato, non sono tutti piccoli imprenditori indipendenti. In Italia, secondo gli ultimi dati Istat, i lavoratori indipendenti sono circa 6.350.000, di cui 2.130.000 con contratto di co.co.co (ben 470.000 nella sola Lombardia, dati 31.10.2002 dell'Inps), dai quali cica il 12-13% sono amministratori (di condominio, di proprietà, ecc.). Dei restanti 4.200.000, un milione e duecentomila sono liberi professionisti, iscritti ad un ordine (avvocati, notai, ingegneri, dentisti, giornalisti (!!!), ecc.), 500.000 sono coadiuvanti (ovvero familiari di titolari di ditte e attività prevalentemente agricolo e di commercio al dettaglio, figura prefordista in via di estinzione - erano quasi 4 milioni negli anni '50), 700-800.000 sono soci di cooperative e solo 440.000 sono considerati dall'Istat imprenditori (secondo la definizione giuridica dell'art. 2082 del cod.civ., secondo il quale è imprenditore chi organizza lavoro altrui con libertà di decidere quanto produrre, come produrre e il prezzo a cui produrre). Infine ci sono 1.200.000 di "lavoratori per conto terzi", una categoria che per l'Istat è residuale.
Scusate questa serie di dati. Ma il punto è sapere che dei sei milioni e passa di lavoratori indipendenti e parasubordinati, in teoria solo 2.800.000 potrebbero assumere una persona a tempo indeterminato, a cui potrebbe essere applicata l'estensione dell'art.18. Mai poichè circa il 40% di costoro  lavora individualmente, solo 1.600.000 hanno almeno un dipendente. La maggior parte di costoro ha addetti alle dipendenze con contrattazione atipica (quindi fuori dall'estensione art. 18). Pensiamo alla maggior parte degli studi professionali (contratti di apprendistato, co.co.co, tempo determinato, stage, borse lavoro, ecc.). Difficilmente la moglie del fioraio, citata da D'Alema e riportato nel demenziale articolo di Scalfari su "La Repubblica" di domenica scorsa, ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato, a prescindere dall'esistenza dell'art. 18. Solo le imprese manifatturiere con più di 8-10 dipendenti possono essere quindi soggette all'estensione dell'art. 18, non più di 150.000 unità complessivamente.
E' quindi una bufala grande come una casa affrmare che un'eventuale applicazione dell'art. 18 a tutti i lavoratori/trici dipendenti a tempo indeterminato crei sconquassi micidiali, (un po' come l'idea che la soglia dei 15 dipendenti impedisca alle piccole imprese di crescere: se si vedono i dati statistici, si scopre che le impese subito sopra i 15 dipendenti sono  più numerose di quelle con 13-14 dipendenti). Il problema, piuttosto, è che, come giustamente osservano Alex Foti e i ChainWorker, il referendum  lascia del tutto invariato il problema precariato. La vera bomba sociale per caporali, imprenditori e capitalisti vari sarebbe la libera estensione di tutele e garanzie (dal posto di lavoro, alla previdenza, salute, ferie, malattie, al reddito, ecc.) a tutto coloro che oggi sono precari, parasubordinati, eterodiretti, e chi più ne ha più ne metta.
Quindi l'importanza del referendum e della sperabile vittoria del SI sta soprattuto nella sua valenza simbolica e politica. Ma ci pensate che potrebbe essere la prima volta dalla sconfitta operaia del 1980 che non solo si resiste ma si contrattacca con successo? E se ciò si verificasse, ci potrebbero essere positive ricadute anche sulla lotta del precariato sociale, per un reddito e una vita dignitosa? E, infine, credo che grazie a questo referendum si scoprirà chi è a favore dei diritti e delle garanzie "senza se e senza ma" anche nei fatti e non solo a parole (di cui ne son piene le fosse).

Andrea Fumagalli

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