tu esprimi un'identità resistenziale grande come una casa: l'identità comunista, oggi ridotta alla costante critica di ogni possibilità presente, avendo perso ogni ipotesi credibile di futuro. Io credo che il movimento non avrà mai la possibilità di incidere sullo stato delle cose presente se non sviluppa un'identità progettuale che possa allargare la partecipazione sociale al movimento in vista di una trasformazione democratica dell'Unione e quindi nel lungo periodo del pianeta (proprio perché siamo nazionalisti, genocidi, coloniali nel bastardo dell'animo, abbiamo sviluppato istituzioni pacifiche e relativamente rispettose dei diritti individuali, sociali, ambientali in misura maggiore che su ogni altra regione del pianeta).
 
Il potere costituente in Europa negli anni 90 lo detenevano i tecnocrati, l'hanno perso a favore degli stati-nazione, anche a causa dell'incapacità di far fronte ai movimenti tettonici della politica globale (in questo ti do ragione). Ci avviciniamo al vuoto costituente, con grande piacere dei neoliberisti che hanno già portato a casa l'euromercato. Il movimento del 15 febbraio si trova di fronte a un carapace europeo esangue: può definitivamente schiacciarlo, facendo un gran favore alla sopravvivenza dello stato-nazione e ai giochi della politica USA, oppure può rianimarlo e riorientarlo in un senso progressista e libertario, globalista e solidale, abbattendo le barriere della xenofobia, che rischiano di diventare, quelle sì, parte integrante di un'identità europea resistenziale intesa come fortezza che si oppone al sud del mondo. Buttare cinquant'anni di sviluppo istituzionale al vento, vuol dire solo riprendere la classica tradizione comunista di ostilità al progetto comunitario, che secondo me è stato uno dei più grandi errori del "pensiero critico" come dici tu, con espressione un po' sessantottarda.

Sono le strategie che trasformano la realtà, non la critica delle strategie,

af
At 18.26 20/08/03 +0200, you wrote:

A proposito di identita’ europea: trovo un po' inquietante che a sinistra abbiano terreno fertile e siano presi sul serio (se non come segnale di pericolo) questi progetti di creazione di identità tascabili - quasi che non ci fossero oggi abbastanza identita’ in giro -, progetti di eugenetica istituzionale o di biopolitica per costituzionalisti. Mi sembra assurdo che il pensiero critico aderisca ad un’equazione cosi’ ridicola che nemmeno i funzionari della Commissione hanno il coraggio di formulare chiaramente: esigenza di un ruolo politico internazionale per l’Europa - esigenza di democrazia in Europa - esigenza di sentimenti di appartenenza identitaria e fedeltà al nuovo livello di governo. E’ chiaro che una questione sono i contenuti dell’azione politica europea, i conflitti sociali e le prassi politiche che costituiscono un governo democratico, e anche, perche’ no?, i meccanismi giuridici formali che tale governo dovrebbero garantire. Una questione del tutto diversa sono i sentimenti di fedeltà a questo dispositivo costituzionale, di identità/alterità entro questa realtà geopolitica.
Non è sentendoci meno americani, diversi dagli americani, che contrastiamo il bushismo. Un’identita’ non controbilancia un’altra, se mai entrano in conflitto: ma e' comunque un conflitto impolitico, perche' gia' naturalizzato in termini di conflitto fra identita'. Forse puo' dirisi che e' una politica internazionale, non un'identita', che puo’ bilanciare l'unilateralismo egemonico americano. Ma anche ragionando cosi’, si fa geopolitica e si capisce poco: questa geopolitica sfocia, poi, nel folklorismo, quando parla il lessico identiario. Piuttosto, invece di tracciare immaginarie distinzioni identitarie nelle sabbie mobili del costituzionalismo contemporaneo, per una politica radicale si tratta di riconoscere problemi e pericoli comuni, elaborare prassi politiche comuni (comuniste), di contrasto defezione resistenza, cosa che ovviamente è impedita da un’identita’ presupposta (tanto siamo diversi…), da un sentimento di specificita’ culturale, da un culturalismo eurocentirco (nel progetto europeo ne andrebbero dei destini non solo dell’Europa, ma dell’umanita’ intera… e andiamo, dobbiamo riproporre una missione civilizzatrice dell’Europa per il governo del mondo? Ma se questa Europa non guarda oltre il suo ombelico e si alambicca con i problemi della propria identita’, specificita’, unità nella diversita’, ecc.).
E’ paradossale l’idea che questo progetto di costruzione di un’identita’ europea in vitro (si’, mi sento europeo e sono orgoglioso di essere europeo, evidentemente c’e’ una tradizione comune fra, chesso’, svedesi e greci, che li distingue da canadesi e turchi…), un progetto che non teme il grottesco ma e' efficace e gia’ si articola in una pluralita’ di iniziative istituzionali (un inno europeo, una bandiera europea, una costituzione per l’Europa, ecc.), debba trovare la solidarieta’ del pensiero radicale. E’ un paradosso, in realta’ e' la conseguenza di una impasse politica, come se, una volta bella e pronta l’identita’ europea, fosse scontato che questa è destinata ad esprimere una politica cosmopolitica e di integrazione in un ordine globale (una politica cosmopolita a partire da un’identita’ particolare - identita’ europea?); come se fosse in sé desiderabile questa politica cosmopolita e il cosmopolitismo europeo non avesse gia’ dato la peggiore prova di se’ nella stagione dell’imperialismo europeo. Come crederci? Come credere che un sentimento di appartenenza all’Europa, un sentimento di fiducia nelle istituzioni europee, sia una garanzia per obiettivi politici, quali che siano (anche se molli e scivolosi come il cosmopolitismo rawlsiano)?
Sembra piu’ semplice dire che dei discorsi identitari non ci importa niente, soprattutto quando la costruzione di un’identita’ parte dall’alto, dalle centrali tecnocratiche del governo globale ed europeo, e che se mai ci interessano i contenuti di una politica europea (perche’ sicuramente questo livello di governo c’e’ gia’ e bisogna farci i conti). 



At 13.38 19/08/2003 +0200, you wrote:
Riprendo a distanza di mesi la riflessione sull'altra europa costituente. Ricorderete che Bifo non vedeva di buon occhio l'appello congiunto habermas-derrida-rorty per la costruzione di una nuova identità europea. Lo riteneva troppo eurocentrico e illuminista: un progetto la cui data di scadenza era già passata da temèp. Bene, adesso il dibattito si è infittito con altri interventi, fra qui quelli di Iris Marion Young e Daniele Archibugi, che hanno discusso alcuni dei limiti rilevati da Bifo. E la questione mi è diventata più chiara.

Non ci crederete, ma è da due mesi che 'sta roba dell'identità europea mi tormenta. Un mio amico marxiano-americano che dalla California adesso va a insegnare a Budapest all'università di Soros, mi ha scritto di recente: "Ma avete almeno in mente gli elementi base su cui fondare un'identità europea di trasformazione?". Non gli ho saputo rispondere. Ma sulla scorta di Archibugi, propendo per la conclusione che non c'è futuro per la cosmodemocrazia se la parte transnazionalista del movimento non allea le proprie forze con l'intellettualità cosmopolita di segno rawlsiano.
 
Prima di liquidare il suddetto trio, teniamo bene a mente una cosa. Quegli interventi postulano il 15 febbraio come data di nascita della società civile europea e di una possibile identità europea postnazionalista capace di controbilanciare l'unilateralità buscista. Tanto è vero che Dahrendorf e Ash Garton sono corsi ai ripari, cercando di sminuirne la portata, nel tentativo di disinnescare le conseguenze dirompenti che ciò avrebbe per l'establishment liberaldemocratico, ancora atlantista.

Non diamo forse peso e rilevanza analoghi a quello straordinario evento? Come possiamo quindi liquidare come tromboni razionalisti giganti del pensiero che hanno chiaramente individuato nel movimento globale l'ultima speranza per l'Europa e il mondo di fronte all'Impero del caos? Sì, il 15 febbraio è stato globale, ma la sua potenza si è espressa in Europa, come ben mostrano i grafici politici di Rem Koolhaas su Wired.

Iris Marion Young dice che Habermas vede in modo paternalista la relazione fra Europa e Sud del mondo, glissando sulle tremende sofferenze inflitte dal colonialismo europeo. Non solo, Habermas sottolinea acriticamente l'impegno della Comunità per i diritti umani, una giurisdizione internazionale e una governance globale a partire dagli settanta (sì, vaglielo a dire ai bosniaci). Ma sulla questione centrale ha ragione Habermas: senza Europa sociale e libertaria, transnazionalista e pacifista, ambientalista e multiculturale ci giochiamo di sicuro il 50% di possibilità di sopravvivenza della specie umana che Martin Rees, fra i massimi fisici viventi, ci attribuisce di qui alla fine del XXI secolo nel suo libro OUR FINAL CENTURY.

Habermas&C senza movimento sono profeti nel deserto. Il loro manifesto è una mano tesa nei nostri confronti. Nel 999 potevamo anche dire: "basta coi soliti tromboni, pensioniamoli al più presto". Oggi che una guerra globale pienamente dispiegata getta la sua ombra funesta sul pianeta, credo che non possiamo permetterci di perdere alcun alleato per strada, nessuna compagna di strada, quand'anche continuassero a credere nella centralità della ragione europea.

Bifo, Habermas ha bisogno di te: trattalo con comprensione.

lx

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