caro uncerto,
un analisi di un movimento e' l'analisi della sua composizione sociale e delle sue cause. Chi ci sta dentro e perche'.
Un movimento nasce su questioni specifiche, la riforma dell'universita' come la pantera o la guerra come il 15F. Si organizza e si espande. In questo processo si costituiscono al suo interno le fazioni politche, che spesso e volentieri esistono indipendentemente ed hanno un obiettivo pregresso.
Tali fazioni sviluppano conflitto su obiettivi e metodo. Da questa lotta dipende la capacita' del movimento di darsi uno sbocco politico, cioe' di riuscire ad ottenerre quei cambiamenti nell'ordine politico-istituzionale che ha nella pancia.
Ora, questo mi sembra abbastanza lineare e non assume quella inversione di soggetto e predicato, quel camminare con la testa in giu' che tu mi attribuisci. E dunque semplicemente ribadisco. I movimenti producono un nuovo stato di cose, una nuova sensibilita'. La politica o le fazioni politiche interpretano questo stato di cose lavorando alla trasformazione dell'ordine di diritto e della sovrastruttura politico-istituzionale. La dialettica, in quanto svolge il rapporto fra metodi ed obiettivi, appartiene a questo ordine del discorso, non a quello dell'analisi del movimento. Cosi' e' chiaro sin dai tempi di Aristotele che defini' la politica, non la metafisica cosi' come Platone-Hegel, come il suo ambito di applicazione adeguato (Marx fa caso a se'. Basti ricordare a questo proposito come il concetto di materialismo dialettico sia al centro della revisione critica del suo oensiero da un bel pezzo).  
 
Dunque i movimenti spostano i riferimenti della politica, tanto di quella politica che ne vuole rappresentare le istanze, quanto di quella politica che le vuole negare. Non per niente si parla di reazione in questo ultimo caso cercnado di mostrare la natura seconda, ad esempio, di fascismo e nazismo rispetto ai movimenti che hanno contrastato. Questo e' chiaro nel caso del fasismo fin dall'origine della carriera politica di Mussolini nel partito socialista, dalla sua retorica populista e da quella oscenita' che fu lo stato corporativo. Il movimento del biennio rosso fu tanto potente da spostare i termini della politica della destra come quelli della sinistra. Il fascismo non ci sarebbe stato senza queste premesse. Appartiene all'ordine delle conseguenze di tai premesse.
 
Tutto cio' mi sembra semplice e chiaro come la luce del sole. Ed e' per questo che mi trovo a disagio quando qualcuno dice che i movimenti perdono (o vincono se e' per questo, e l'uso di tale espressione nel mio precedente contributo era chiaramente paradossale). In altri termini, mi pare un atteggiamento disfattista che riflette una sotanziale incapacita' di pensare in senso materialista e radicale. Invece di lavore politicamente su un sentimento diffuso come il rifiuto dei fini e dei metodi della guerra in Iraq, sentimento che il movimento ha dimostrato essere inequivocabilmente maggioritario nelle societa' occidentali (gli USA a parte, ma questo e' ancora da vedersi caro uncerto, perche' la guerra, come lo stesso bush ha ammesso, e' lontana dalla sua conclusione -- ricordi il vietnam e cio' ne segui' ?), certi danno tutto per finito, anzi sconfitto, distruggendo con cio' le basi di una possibile politica alternativa.
 
Quanto al resto del tuo contributo mi sembra confuso e massimalista. E' ben verso che esiste una segmentazione verticale ed orizzontale dello spazio politico-istituzionale. Di fronte a questa segmentazione mi sembra che la risposta adeguata venga dal movimento no-global di Seattle-Genova. Lavorare all'interno di questa segmentazione portando in luce a livello locale gli effetti delle globalizzazione capitalistica, quindi organizzare in rete le soggettivita' locali nel rispetto delle loro autonomia politico-culturali e dei loro interessi oggettivi. Il punto della politica radicale e' qui' quello di cercare punti di convergenza e sinergie, e di esprimere su questa base una piattaforma globale. Assumere invece, come mi pare tu faccia, il punto di vista di uno spazio completamente linearizzato, significa fornire alla reazione le armi di sempre, quelle della divisione e dell'esclusione.
 
Se mi sbaglio, fammi capire perche'.
 
 
v

uncerto <[EMAIL PROTECTED]> wrote:
Il Tue, 26 Aug 2003 13:59:58 -0700 (PDT)
vittorio marchi <[EMAIL PROTECTED]>ha scritto:


> I movimenti possono essere progressivi o regressivi. Essi vincono
> sempre, semplicemente perche_ spostano i riferimenti e pro-ducono
> nuova identita'. I movimenti cosi_ come le rivoluzioni sono linee
> di fuga ricombinanti dove le vecchie distinzioni vengono sovvertite
> e le identita' vengono scomposte e riaggregate in una nuova
> prospettiva. Essi sono eventi che fanno differenza e definiscono
> nuove basi del discorso politico. Sta alla poltica saper leggere ed
> interpretare la proiezione di tendenza che essi pro-ducono.

Scusami, ma non mi pare un'affermazione politica, ma meta-politica. In
che senso vincono SEMPRE? Anche la controrivoluzione è un movimento che
sposta riferimenti e produce nuove identità . la produzione di nuove
identità non è in nessun caso un elemento di 'vittoria' dei movimenti
che, come anche tu dici, sono regressivi o progressivi. Il problema,
poi, è vedere rispetto a che...ma questa è altra questione...
Carl Schmitt, ad esempio, che è il piùimportante contro-rivoluzionario
del XX secolo, è uno che pro-duce, nel senso appunto che guida verso, ma
non ha prodotto'nessun movimento'. Ha'guidato', ha cercato di
governare'un' movimento. Cioè HA FATTO IL POLITICO, anzi, ha fatto del
politico il cuore della lettura del movimento nazional-socialista. Ha
fatto, cioè, quello che dici tu: ha interpretato la proiezione di
tendenza e ha cercato di guidarla. E l'ha letta bene, molto meglio dei
comunisti tedeschi!! E l'ha fatta con una profondità tutta politica che
proprio sul pro-durre, ripeto, nel senso di condurre verso, si è
strutturata (potrei parlare pure di Heidegger e della sua adesione alle
SA, l'ala movimentista.....ma non mi pare il caso con il
pochissimo spazio proprio di una mail).
Bene: il movimento non ha vinto: non ha vinto proprio per nulla.
E non ha vinto nemmeno il con-durre nè il pro-durre di Schmitt.
Non ha vinto nè la dinamica di produzione nè quella di interpretazione
dei movimenti. Non ha vito la produzione di nuove soggettività...perchè,
appunto, NON E' QUESTO IL PUNTO....(glisso sulla nozione di autonomia
del politico che negli anni 70 qualche disperato intellettuale marxista
ha cercato di declinare, proprio per rispondere all'eteronomia dei
movimenti....)

>
> I movimenti sono un dato di realta', la critica (dialettica) un
> fatto della ragione politica. I movimenti esprimono un disagio o un
> desiderio, non fanno politica. Ed e' piuttosto vero l_opposto, e_
> cioe_ che la politica si fa sulla testa dei movimenti.

Guarda, ricostruisco la tua frase con un altro ordine: "I
movimenti...non fanno politica...sono un da to di realtà. La critica
(dialettica) un fatto della ragione politica, i movimenti un dato di
realtà."
Ora:
1) da quando in qua la critica dialettica sia un 'fatto' della ragione e
i movimenti un 'dato di realtà'? ma da un bel pò!! dall'Introduzione
alla 'Fenomenologia' di Hegel...soltanto che lui lì era già un bel pò
più avanti di te...bella produzione di nuova soggettività....
2) permettimi, Marx ti avrebbe preso a mazzate. E ti avrebbe detto (come
ha già detto semplicemente al suo amicone che ricordavamo prima) che
cammini con la testa per terra e i piedi in aria.....(e scusami la
banalizzazione...della posizione di Marx, ovviamente...;-))) a meno
che...ma lasciamo cadere, qualcuno pensi che Gromiko avesse capito i
Manoscritti del '44...a quel punto tutto è possibile dire...


>E la politica puo_ vincere e perdere. La critica (dialettica) pertanto
> si applica alla politica, ai movimenti l_analisi della loro natura
> ; e forma. Scambiare I due ruoli significa voler portare la storia
> inietro e fare il gioco della reazione. Burke, ad esempio, faceva
> la critica della rivoluzione francese. E Burke lavorava per la
> reazione.

Embè? Burke lavorava per la reazione, Schmitt di più, ma personalmente
non conosco uno che ha capito meglio Lenin di Carl Schmitt....
Non capisco, qui, la differenza tra la critica dialettica applicata
(glissiamo sull'applicazione di una teoria...) alla politica e l'analisi
della natura dei movimenti. Quali sarebbero le differenze tra i due
metodi? e quali sarebbero, in specifico, i due metodi da applicare a
questi oggetti che stanno lì...?? Uno è critico dialettico e l'altro
dogmatico monistico? o cosa?

Il punto è che tutta la discussione sull'Europa minore si fissa sulle
identità e non suoi luoghi. Sono i luoghi oggi, materiali e simbolici,
gli spazi, più che i tempi e le identità, più che le soggettività e le
ermeneutiche dei movimenti, che sono cruciali per far diventare
desiderio ed eteronomia dei movimenti punti di coagulo di alterità che
transitano, attraversano e rideterminano la geo-filosofia europea (e nel
senso di unDeleuze e non in quella di un Cacciari) e la tradizione
politica occidentale.

Sin quando non se ne comincerà a fare un'analisi tendenziosa, collettiva
e topologica (nel senso, davvero, di una mappa che misuri l'infinitezza
del territorio e gli luoghi dove questi spazi si intersecano)
continueremo a discutere di carte costituzionali, di teorie dialettiche
e di ermeneutiche dei movimenti. Diventeremo vecchi, se non lo siamo già
, ci ricorderemo di quando eravamo comunisti, o di quando lo eravamo a
nostro modo, o di quando non lo eravamo per niente, rikombineremo la
nostra memoria, ne faremo una buona meticcia IDENTITÀ(con tutto quello
che c'èin giro...non è mica difficile...), e ricacceremo la SPAZIO della
poli tica fra i nostri incubi.....ma, come si sa, gli spettri non
lasciano mai soli....


Emilio
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